17 maggio 2011

VERZIERE E PIAZZA SANTO STEFANO


Nella rubrica di oggi, che continua il tema delle piazze nel Centro Storico, non viene esaminata una singola piazza bensì un com-plesso di piazze collegate fra loro: un insieme di spazi urbani che del tradizionale concetto di piazza non posseggono nessuno aspetto; un susseguirsi di slarghi che si presentano senza una forma definita, senza un carattere pre-ciso, senza una configurazione riconoscibile. L’insieme di questi luoghi, posti nel pieno centro della città, subito alle spalle del Duomo, è la disordinata vicinanza degli slarghi informi, tuttora privi di una fisionomia leggibile , che comprendono via Larga, il Verziere, piazza Santo Stefano, e il lato non costruito che lambisce piazza Fontana.

Questi luoghi sono il risultato di sventramenti avvenuti in passato, di aperture di nuove strade, di tracciati eseguiti in tempi distanziati, di interventi effettuati senza un piano complessivo e lungimirante. Sono anche il residuo di bombardamenti bellici a cui non si è ancora trovata una soluzione decorosa. Il risultato di tutto ciò è l’attuale configurazione urbana informe, amorfa, confusa.

Prima di esaminare come e se sia possibile porre rimedio a un simile stato di fatto, occorre sgombrare alcuni pregiudizi relativi allo sviluppo delle città. Si tende a credere che l’aggiunta di volumi costruiti rappresenti un male per la città. Si pensa che aumentare le cubature in una metropoli già molto addensata non aiuti a renderla più vivibile per i suoi abitanti. Si è convinti che qualsiasi nuova costruzione debba essere vista come un attentato alla qualità estetica dell’ambiente urbano e una minaccia per la salute dei cittadini. Non è così. Non è l’aumento delle volumetrie che va considerato un pericolo e un danno da scongiurare, bensì il modo e la quantità con cui le volumetrie vengono fatte sorgere; e il luogo in cui vengono collocate.

Vi sono luoghi urbani in cui la vastità e la mancanza di precisi confini nuociono alla armonia dell’ambiente; in questi casi la mancanza di edifici non è un bene ma un danno; la possibilità di intervenire con nuove costruzioni, progettate con cura e collocate con attenzione, porterebbe un miglioramento complessivo allo spazio libero e ancora non sufficientemente determinato.

La zona sopra individuata è ricca di monumenti storici autorevoli: la chiesa di Santo Stefano, costruita in epoca di controriforma, nel cui interno si trova una monumentale sagrestia; la vicina Chiesa di San Bernardino, inglobata in un sorprendente edificio settecentesco di modernissimo impianto razionalista, e collegata con la omonima Cappella detta alle Ossa per la presenza dei teschi raccolti durante il periodo della peste; il Palazzo seicentesco del Capitano di Giustizia, usato come Tribunale durante la dominazione spagnola.

Questi edifici monumentali si presentano slegati fra di loro e male inseriti nell’ambiente che li circonda, ma non li valorizza, né li mette in risalto. Alla Chiesa di Santo Stefano manca un sagrato riconoscibile, da cui si avrebbe una vista monumentale sulla facciata in stile manierista e sul robusto campanile cinquecentesco. L’area davanti alla chiesa si disperde senza un perimetro preciso e leggibile: da un lato muore ai piedi di un pretenzioso edificio moderno, con dettagli decorativi adatti più a un mobile d’abitazione che non a un edificio civile; dall’altro si dissolve nell’ampio stradone del Verziere. Un intervento edilizio energico e coraggioso potrebbe assegnare una forma al sagrato e conferire dignità sia alla grande chiesa di Santo Stefano sia alla vicina Chiesa di San Bernardino alle Ossa.

Anni fa il Comune aveva bandito un concorso per la sistemazione della vicina piazza Fontana: era stato premiato un progetto alquanto timido degli architetti Figini e Pollini, il quale proponeva di trasformare la piazza in un vivaio di molti alberelli, allineati in file regolari e perfettamente ordinate, come se fossero le piante di un frutteto. Il Comune in quella occasione aveva commesso uno sbaglio: non bisognava limitare i confini del concorso alla sola Piazza Fontana; occorreva inglobare in una unica soluzione progettuale tutta l’area circostante, da via Larga a Largo Augusto, da piazza Santo Stefano allo stradone del Verziere. Occorreva in conclusione vedere quel pezzo di città, così centrale, così vitale, come una porzione urbana unica e indivisibile, come un settore di città strettamente unito e legato in tutte le sue parti.

Ancora oggi sarebbe entusiasmante bandire un nuovo concorso, e indire una appassionante gara fra progettisti consapevoli e preparati. Ai futuri concorrenti tuttavia (e prima di loro ai responsabili del bando) va dato un consiglio preliminare: non aver paura di progettare, qualora si rivelassero necessari, luoghi urbani generalmente considerati con diffidenza; siano questi o passaggi pedonali di dimensioni ridotte; o percorsi viari ristretti e angusti; o spazi racchiusi fra pareti ravvicinate; o luoghi raccolti e circoscritti; purché tutte queste tipologie siano alternate da frequenti zone di vasto respiro e di larga estensione. Come avviene nei centri storici ancora intatti, dove piccoli vicoli sfociano in grandi piazze; dove percorsi stretti si alternano ad ampi spazi aperti; e il passaggio tra dimensioni tanto diverse genera stimolanti sensazioni di sorpresa e di meraviglia.

Si ha paura delle larghezze ridotte? Si temono i tracciati compresi tra muri vicini e contrapposti? Ci aiuti la lezione di coraggio data dai progettisti antichi; ci conforti l’audacia con cui essi hanno dato forma a spazi esterni, anche in situazioni ostiche e acrobatiche, come lo spazio compreso tra il fianco della Chiesa di Santo Stefano e il fronte della Cappella alle Ossa; dove il vicolo pedonale, interposto fra i due edifici, è di larghezza davvero minima, tanto da obbligare il progettista ad arretrate il portone di ingresso della cappella, onde evitare che, all’uscita, i fedeli vadano a urtare contro il muro di fronte. L’arretramento tuttavia dà origine a due felici dettagli architettonici: una morbida concavità nel muro frontale della cappella e un accogliente slargo nella stretta sezione del vicolo.

Due dettagli architettonici di grande bravura che non sarebbero stati concepiti dal progettista se non fosse stato costretto ad agire in una situazione di spazio ridottissimo. La ristrettezza del vicolo ha giovato alla bellezza del luogo. Il coraggio e la forza di non lasciarsi intimorire dalla stretta dimensione del vicolo ha suggerito al progettista un’altra brillante soluzione: il muro frontale della cappella si prolunga alquanto al di là della retrostante sala interna, e si spinge, come una quinta aerea e libera, fin contro l’aiuola di un vicino spazio pubblico. Nessuna remora, nessun rimorso, da parte del progettista, per aver allungato il vicolo già molto stretto e fatto sembrare ancora più lungo un percorso già molto angusto.

Molti infelici angoli di Milano sarebbero da esaminare con attenzione e riprogettare nei dettagli; ma prima i nuovi architetti dovrebbero prendere esempio dai maestri del passato e dalla loro sicura e sapiente capacità inventiva.

Jacopo Gardella



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