16 novembre 2010

VUOL GUIDARE LA CITTÀ? MOSTRI LA PATENTE


Trascorsa la sfilata di buone intenzioni che hanno riempito la densa campagna delle primarie e approfittando della pausa che precede la sfida vera, si richiederebbe a candidato/squadra/coalizione di tradurre i proponimenti circa le magnifiche sorti della città in un programma politico-amministrativo plausibile, utile per sapere cosa fare nel caso di un’auspicabile vittoria. Vincere infatti non è un fine in sé bensì un mezzo necessario per conseguire la finalità di un ragionevole buon governo. Il “meno peggio” rispetto alla pessima esperienza morattiana non basta, pertanto è certamente da evitare un’ennesima sconfitta ma altrettanto da scongiurare una “vittoria di Pirro” (l’ultima vittoriosa esperienza di governo alla Provincia, per esempio, è passata come acqua fresca lasciando passare la cementificazione acuta di gran parte dell’area metropolitana nonché la frattura istituzionale della Provincia stessa).

Nel caso risulterebbe preliminare, rispetto a ogni rituale elencazione di problemi irrisolti e soluzioni prodigiose, rispondere al quesito che con lucida saggezza Piero Bassetti ha riproposto nell’intervista a questo Arcipelago il 27 ottobre. Riportiamone tre formulazioni inequivocabili che hanno la forza di un sillogismo di grande efficacia e chiarezza al quale sarebbe colpevole continuare a sfuggire (sempre che la politica “moderna” si riconcili almeno con la logica elementare e il buon senso se non con l’etica e la cultura): 1. “Milano nella sua società civile non è il Comune ma la città glocale di quattro milioni di persone”; 2. “il Comune quale autorità amministrativa non può più gestire la città che lo trascende”; 3.”la classe dirigente non ha capito questo pertanto Milano non ha governance né leadership: non ha una guida”.

Riguardo questa impietosa ma purtroppo realistica analisi non può tardare una proposta precisa che attenga non solo le finalità da promettere (lavoro, ambiente, sicurezza, casa, ecc.) in favore di generiche categorie (giovani, anziani, donne, precari, ecc.) bensì anche gli strumenti per conseguirle, tenuto conto che un Comune anche grande non è un Soviet e pertanto ha poteri e risorse limitati e inquadrati in un ordinamento più ampio. Si ripropone allora l’annosa questione del superamento di una rete istituzionale di impianto ottocentesco, che per altro risultava obsoleta già alla metà del novecento (“nel 1960 abbiamo istituito il PIM, oggi invece… ristretti a un municipalismo spinto, incapace di affrontare il problema della mobilità nella stessa scala che ha la società entro la quale si svolge”, intervista citata).

L’obiezione tuttavia è nota: si tratterebbe di “ingegneria istituzionale” che non interessa alla gente. Ed è vero: al passeggero che deve prendere un taxi interessa anzitutto la meta e la tariffa, non il funzionamento del motore o l’andamento dei sensi unici. Però dà per scontato che il taxista sia in possesso della patente di guida e che quindi conosca a sua volta l’uso dei comandi e la segnaletica stradale in modo compiuto e non approssimativo o improvvisato. Ogni candidato a guidare il taxi ha pertanto il dovere di esibire la patente, se del caso seguendo un corso accelerato di scuola guida, preliminare rispetto al lodevole proposito di portarci in orario alla stazione piuttosto che all’aeroporto. E troppo allora pretendere che il programma di una formazione che si candida a guidare una importante città europea non si limiti a cenni generici e riferimenti sfuggenti circa la necessaria riforma dell’ordinamento istituzionale sub-regionale (per titoli: transizione alla Città Metropolitana, superamento della/e Provincia/e, decentramento circoscrizionale, redistribuzione delle funzioni, revisione dei confini)? Tenuto conto per altro che il percorso è già indicato in precisi dispositivi costituzionali e legislativi vigenti, finora ignorati e talvolta irrisi quali velleità utopistiche, ma che restano pur sempre stampati sugli spessi fogli della Gazzetta Ufficiale di uno Stato che si definisce tuttora “di diritto”.

Né vale la tentazione a lasciare nel vago una questione così dirimente riparandosi dietro il paravento del “federalismo” (nelle sue varie aggettivazioni: fiscale, solidale, regionale, ecc.) ovvero aspettando che altri si assumano la briga di metterci una pezza, col rischio di lacerare tutto il tessuto. Per chiosare il federalismo nostrano in lingua appunto federale: “xe peso el tacòn del buso”.

 

Valentino Ballabio



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