14 giugno 2016

I DIRITTI NELLA CITTÀ E LA “DEMOCRAZIA ESIGENTE”

Nuovi e vecchi cittadini della città globale


La città si presta a una considerazione dei diritti in chiave storico-sociologica, che ci conduca a una considerazione della “democrazia esigente”, che io interpreto come un sinonimo di “cittadinanza attiva”. La città è il luogo del pubblico per eccellenza, un luogo materiale e simbolico, fin dai tempi dell’agorà: nel’antica città uscire di casa era il primo atto politico del cittadino.

06beccalli22FBOggi vi è una inversione di termine e significati: “padroni a casa nostra” è uno slogan che piace nel marketing politico; vi è una appropriazione dello spazio pubblico da parte dei privati, che da pubblico di cittadini diventano pubblico di consumatori, e la libertà viene fuori come libertà di consumo. La politica si presenta come consumo orientato dal marketing elettorale, in cui è sempre più importante la macchina della paura. Si fomenta l’ostilità nei confronti del diverso, si costruiscono capri espiatori. La città diventa la scena privilegiata delle politiche securitarie e l’agorà di un centro commerciale piuttosto che un luogo di esercizio della democrazia.

Le città sono diventate il luogo di confronto dei diritti così come d’altro canto sono la nuova strutturazione della diseguaglianza sociale. A fronte della crisi dei soggetti storici della diseguaglianza, come le classi sociali definite dalla prima fase del capitalismo, si parla molto di “territorio” per capire i nuovi fenomeni oltre le classi sociali. Il riferimento al territorio è una parola chiave di diverse forze politiche così come di diverse analisi disciplinari delle diseguaglianze sociali. All’interno però di un riferimento generale al territorio sono le città, le circoscrizioni più tipiche delle nuove forme di diseguaglianza.

Le città sono diventate un po’ delle discariche dei problemi della globalizzazione, sono il teatro di tanti dei problemi strutturali e culturali di azione politica che ci provengono dalla eredità della globalizzazione. Specialmente le “città globali” (e Milano si avvicina a diventare tale) sono i luoghi in cui si creano e si incontrano le nuove elitès dei potenti e in cui si ritrovano le masse degli esclusi, i servi delle globalizzazione. Sono luoghi in cui l’esclusione non è temporanea, ma duratura. Sono talora, stranieri esclusi, talora, indigeni giovani precari a lungo periodo. Costituiscono le classi pericolose di oggi, trattati come le classes dangerous di un tempo. A quale cittadinanza possono aspirare questi nuovi cittadini?

Torniamo alla storia dei diritti, alla loro distinzione nel tempo, al loro intreccio attuale. Come sociologa parto da questa storia, più che dalla Costituzione italiana ferma restando la mia ammirazione per la Carta.

La tipologia della cittadinanza ha avuto la sua più nota espressione nel campo delle scienze sociali nell’opera di T. H. Marshall che la definisce a partire dalla storia dell’Inghilterra: prima vengono i diirtti civili (a partire dall’habeas corpus), poi vengono i diritti politici (a partire dal voto), poi vengono i diritti sociali (i diritti che corrispondono alla dignità socialmente riconosciuta in ogni diversa epoca storica). La triade marshalliana della cittadinanza è sempre stata complicata anche a metà del secolo scorso. I diritti sociali sono sempre stati i più controversi per tutto il Novecento poiché più complicati e più sfumati di quelli civili e politici che si riferiscono a norme più semplici e più rigide. Il diritto a vivere con la dignità che ogni società, ogni epoca storica considera appropriata per un cittadino è per definizione un diritto variabile; una volta l’istruzione non ne faceva parte, e poi l’istruzione obbligatoria è stata estesa per gradi; la salute lo era inizialmente in minima misura (la sopravvivenza), adesso la salute può comprendere persino le cure dentistiche o quelle psichiatriche.

Se ragioniamo oggi sulla triade dei diritti, che è una tipologia, ma è anche una storia in breve, le complicazioni aumentano. Prendiamo l’immigrazione, per esempio: gli immigrati non passano attraverso i diritti civili, politici e sociali, cominciano casomai nelle loro richieste dai diritti sociali. Stefano Rodotà citando Brecht diceva “la pancia viene prima”; ma la pancia è metaforica poiché non è più diritto a sopravvivere, ma è diritto a vivere dignitosamente, e la dignità un concetto complesso e controverso.

Tornando indietro nella triade cosa accade ai diritti politici? Non sembra che questi diritti siano fortemente richiesti dalla nuove popolazioni dei migranti, forse per l’urgenza dei diritti sociali, forse per le ambiguità che il transazionalismo porta con sé nelle relazioni con il paese d’origine e nell’eventuale cittadinanza “multipla”. Laddove la domanda di diritti politici si presenta debole l’offerta in parecchi paesi a partire dall’Italia, è ben scarsa, persino a livello delle amministrazioni locali.

Lo stesso sindacato che in Italia, dalla fine dell’800 con la fondazione del nuovo sindacalismo confederale, territoriale e poi industriale, ha una storia importante di difesa dei diritti generali, di difesa non corporativa di diritti universali, oggi, offre più sportello e assistenza, piuttosto che cittadinanza. Il sindacato dovrebbe diventare un pilastro costruttore di una cittadinanza attiva dei “nuovi arrivati” promuovendo il loro ruolo di cittadini.

Non mancano esempi storici recenti sulla vicenda del sindacalismo italiano come agente di cittadinanza: quando negli anni ’50 era emerso il razzismo a fronte delle migrazioni interne dei nuovi italiani (i “terroni”), c’è stata una straordinaria azione di integrazione degli operai del sud e delle campagne, attraverso l’azione sindacale che ha elaborato il nuovo tessuto della cittadinanza a partire dalla azione collettiva. Questo passaggio è stato molto bene ricostruito da Trentin nel suo famoso libro “Da sfruttati a produttori“.

Ecco, e cosa succede dei diritti civili? Anche questo caposaldo dei diritti, che era l’ABC, era l’habeas corpus per quelli che provenivano da una storia di tipo anglosassone, anche su questo non possiamo più contare facilmente, perché – veniva ricordato prima il multiculturalismo – siamo in una situazione in cui neanche i diritti civili sono chiari. Coloro che portano la diversità con sé, appunto i cittadini immigrati, e la città è il teatro della loro presenza, portano anche principi diversi: portano diritti, valori, pratiche diverse da quelle dei cittadini ospitanti.

Noi siamo molto ospitali, però fino a che punto possiamo, vogliamo, dobbiamo essere ospitali? Dove si pongono, diciamo così i picchetti della cittadinanza? I diritti individuali, quando si trasformano in diritti di gruppo si pongono talora in modo minaccioso rispetto alla cittadinanza generale, e a questi problemi a bisogna pazientemente lavorare, bisogna occuparsene e dipanarli: uno sforzo comune di cittadinanza attiva che riguarda diversi gruppi sociali; trasversale a tutti questi – è inutile che io lo ripeta perché lo dico sempre – la problematica delle donne è centrale.

“Cittadinanza attiva” direi che è il nostro motto e non spaventiamoci del fatto che noi lavoriamo nel locale: la democrazia agente è una democrazia che è pratica, è praticata come è stata praticata la nostra esperienza di campagna delle primarie come allargamento della democrazia delegata, come allargamento verso una democrazia più deliberativa o comunque più partecipata, è locale, è molto locale. Il locale può anche essere molto più forte del nazionale a fronte dell’importanza internazionale e globale dei fenomeni. Quindi abbiamo coraggio e lavoriamo insieme!

 

Bianca Beccalli



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