17 aprile 2012

SUL FINANZIAMENTO AI PARTITI


Le storie emerse in questi giorni fanno venire il dubbio che la “nuova politica” non sia stata un passo avanti rispetto alla precedente. Almeno non dal punto di vista della trasparenza nel finanziamento dei partiti. Sappiamo bene che, per buona parte della storia repubblicana, la guerra fredda ha fatto da scusa a una certa disinvoltura da parte dei responsabili del finanziamento dei partiti politici, alimentando anche una qualche dose di mutua tolleranza tra le forze politiche relativamente alle rispettive fonti di tali finanziamenti. Si tratta di un fenomeno complesso, che non riguarda solo l’Italia e non coinvolge soltanto i partiti. A ricevere soldi per dare il proprio contributo “alla causa” (sia quella della libertà sia quella del socialismo) erano organizzazioni di varia natura. Chi fosse interessato al tema può leggere il bel libro di Frances Stonor Saunders Who Paid the Piper? The CIA and the Cultural Cold War (Granta Books, London 1999) oppure due magistrali lavori di sintesi sulla Guerra fredda: The Atlantic and Its Enemies. A History of the Cold War (Allen Lane, London 2011) di Norman Stone e The Cold War (Allen Lane, London 2005) di John Lewis Gaddis.

Non intendo negare che ai tempi della guerra fredda qualcuno abbia lucrato all’ombra dell’ideale, ma ho l’impressione che la percentuale di autentica appropriazione per fini personali di risorse che – legalmente o illegalmente – erano destinate al finanziamento di attività politiche sia stata, in quel periodo e forse anche fino agli anni novanta, meno ampia rispetto a quel che accade oggi. Un sistema illegale, dunque, una distorsione indiscutibilmente, ma qualcosa che si poteva spiegare e comprendere nel contesto della politica internazionale di quegli anni. Sottolineo “spiegare” e “comprendere” che è cosa diversa da “giustificare”. Tuttavia, forse una qualche forma di perdono sarebbe stata accettabile se i partiti avessero avuto il coraggio di fare un’operazione di verità quando le inchieste di Tangentopoli misero sotto accusa un intero parlamento.

Le cose non sono andate così. Però mi pare che ci sarebbe da riflettere sui cambiamenti profondi intervenuti nel frattempo nella cultura politica e nella società del nostro paese. Persino paragonate con le vicende emerse dalle inchieste di Tangentopoli quelle odierne mi sembrano di natura significativamente diversa, e molto più preoccupanti. Se non altro perché, leggendo le cronache di questi giorni, si fatica a capire quale sia il nesso tra certe operazioni immobiliari dell’ex tesoriere della Margherita, o tra certi investimenti in paesi in via di sviluppo dell’ex tesoriere della Lega, e il programma e gli ideali dei rispettivi partiti. Dalla patologia, forse curabile, siamo alla vera e propria degenerazione della politica democratica. Abbiamo detto che nel vecchio regime l’opacità – sia per quel che riguarda le fonti, sia per quel che riguarda la gestione dei fondi cui i partiti attingevano per le proprie spese – era la regola piuttosto che l’eccezione. Ma non credo si possa dire che in passato fosse così evidente la totale confusione tra interessi personali e politici che sembra il tratto distintivo degli scandali esplosi negli ultimi mesi.

A dirla tutta, mi arrischierei persino a ipotizzare che i partiti liquidi, gassosi o personali non abbiano dato, da questo punto di vista, una gran prova. Oggi leggiamo con raccapriccio delle vicende di alcuni dirigenti della Lega. Ma le ultime notizie non sono certo le sole, e nemmeno possiamo affermare con certezza che siano le più gravi. Buona parte dei partiti attualmente presenti in parlamento è stata coinvolta negli ultimi anni in un’inchiesta legata al finanziamento della propria attività o alla gestione del proprio patrimonio. Se la memoria non mi inganna, l’unica eccezione è il partito personale di Silvio Berlusconi. Se ho ragione, sarebbe comunque anche questo un fatto su cui si dovrebbe riflettere con attenzione. Magari in attesa di uno storico che ci spieghi quali e quante risorse sono state impiegate negli ultimi venti anni per finanziare le attività politiche di Berlusconi e dei suoi sodali. Se possibile indicandone anche la provenienza.

Questo stato di cose rende più difficile la posizione di chi vorrebbe continuare a difendere il principio che il finanziamento dei partiti non può essere lasciato unicamente alla libera contribuzione dei privati. Abolire del tutto il finanziamento pubblico è una di quelle soluzioni semplici che oggi sono molto popolari, e che potrebbero prima o poi imporsi con la forza di un’opinione pubblica eccitata da una stampa che sembra sempre meno disposta a sopportare i costi di una democrazia che non sia condizionata dai capitali privati. Per rendersi conto dei guasti che un regime di finanziamento privato senza limiti potrebbe generare basterebbe porgere l’orecchio per ascoltare voci come quella di Ronald Dworkin che denuncia con forza i danni che il “big money” sta procurando alla democrazia americana, specie dopo che la sciagurata sentenza della Corte Suprema nel caso Citizens United ha di fatto liberalizzato la possibilità di finanziare candidati da parte di corporations e altri enti collettivi. Per evitare esiti peggiori ci vorrebbe una capacità di leadership da parte dei principali partiti che forse è irragionevole sperare. Un’iniziativa forte a sostegno di una proposta come quella di Pellegrino Capaldo resa pubblica nei giorni scorsi potrebbe essere a questo punto un “male minore” che sarebbe nell’interesse di tutti accettare. Le conseguenze dell’irresolutezza dei partiti potrebbero essere molto peggiori, per i partiti stessi e per la democrazia.

 

Mario Ricciardi



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