3 maggio 2010

BABELE, DUBAI E I GIARDINI PENSILI DI CITY LIFE


A Babele non si confusero le lingue, come molti credono, ma la lingua. “Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole”, prima che gli uomini si mettessero a cuocere mattoni. “Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento”. Inventata la materia prima si poteva dare libero sfogo alla fantasia. Si caricavano a vicenda: “venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco”. Accade spesso che ci si debba pentire delle decisioni prese in un clima di euforia collettiva. Subito dopo, infatti, l’azzardo prese loro la mano: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo (…)”. Addirittura! C’è quel Venite che ridonda e non promette niente di buono. Sa un po’ troppo di scaricabarile. Tutti colpevoli, nessun colpevole! ” E facciamoci un nome, per non disperdersi su tutta la terra”.

Non è un problema di volumetrie: non c’era il rischio del troppo pieno, né c’erano ambientalisti avvezzi a somatizzarne la sindrome. Però è insensato e le cose che non hanno senso è difficile che riescano bene, soprattutto nel campo dell’architettura, dove in genere si costruisce o per Dio o per gli uomini. È così che arriva il giorno in cui non ci si capisce più l’un l’altro. Se la lingua comune viene utilizzata per mettersi d’accordo su progetti insensati, alla fine ci si perde. Gente che andava di qua e di là senza costrutto, le donne alle prese con tremendi dolori e gravidanze post peccato originale e gli uomini costretti a trarre il cibo con fatica per tutti i giorni della vita. Ma soprattutto il pasticcio dell’unità della lingua perduta, senza un interprete e nemmeno uno straccio di vocabolario. In quel guazzabuglio al Signore non rimase altro cercarne uno di cui ci si potesse fidare. È questa l’origine della storia di Abramo, figlio di Terach, fratello di Nacor e Aran e zio di Lot. Personaggio quest’ultimo piuttosto inquietante, capace di offrire le proprie figlie a quegli assatanati di Sodoma pur di proteggere gli ospiti entrati all’ombra del suo tetto, come Abramo del resto, disposto addirittura a dare in olocausto il figlio prediletto per compiacere al Signore. Ottennero l’esatto contrario di quello che volevano: cattiva fama e dispersione. Se non fosse stato per l’elezione di Abramo non ci sarebbe stata nessuna salvezza.

Forse la crisi di Dubai non è così radicale, ma non dev’essere uno spettacolo da poco assistere all’esodo di qualche migliaio di persone provenienti da tutte le parti del mondo che mollano la fuoriserie in aeroporto lasciando le chiavi nel cruscotto pur di andarsene via da quell’insensatezza. Forse c’è una ragione più prosaica per cui l’inaugurazione della torre più alta del mondo, non sappiamo quanto sarebbe stata alta Babele, ha coinciso con il default dell’emirato. La coincidenza probabilmente è dovuta soltanto all’andamento del ciclo immobiliare. Quattro conti, l’apice del boom è stato nel 2004, e allo sceicco Mohammed Bin Rashid Al Maktoum, che non vedeva l’ora, deve essere sembrato il momento buono per buttar lì quattro milioni di dollari e cominciare a costruire quel mostro insano. I cicli però non sono eterni e la leva per un po’ fa crescere e poi ti mette a rischio. Così si capisce la sincronia. Niente di magico né di casuale: cinque/sei anni per costruire, schiavizzando e massacrando poveretti provenienti da varie parti del mondo, 5/6 per preparare lo sboom. Non è per caso che i fuochi d’artificio per il completamento della torre dei record facciano da contrappunto alla tristezza dell’esodo. Milano non è Dubai, ed è abbastanza lontana da Babele, ma anche qui la vanagloria è capace di creare insensatezze. Come al solito arriviamo tardi, quando dalle altre parti sono all’atto di dolore. Forse si sarebbe ancora in tempo, ma non sia mai! E infatti il dramma somiglia tragicamente alla farsa. Rilanceremo la città, ci saranno case per tutti, sradicheremo i boschi e li metteremo in verticale! Venite! Venite!

Mario De Gaspari



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