22 dicembre 2009

MEMORIA: NON DIMENTICARE PER NON PERDONARE


Un paio di settimane orsono, quando abbiamo pensato di dedicare questo numero del giornale alla Casa della memoria, non avremmo certo immaginato il furto dell’insegna del campo di sterminio di Auschwitz. I tempi nei quali viviamo, il nostro presente, son terribili per tutti ma in particolare per chi di quelle atrocità ne ha sentito parlare fin da bambino ed ha visto con i propri occhi piangere padri, madri, sorelle, fratelli distrutti da un dolore che non li avrebbe abbandonati mai.

Quando queste profanazioni si ripetono, magari con crescente intensità, autorevoli personaggi di governo, della politica e della cultura ritornano a pronunciare, in nome della pace, parole come perdono o riconciliazione. E allora sempre mi domando chi dovrebbe perdonare e cosa si dovrebbe perdonare e perché, ma soprattutto cosa è il perdono. Di fronte alle atrocità come i campi di sterminio, le fucilazioni di cittadini inermi, le torture, insomma di fronte a tutto il bagaglio di orrori che ci ha consegnato la storia, il perdono può essere solo definito come la rinuncia alla vendetta, come annullamento di questo umano sentimento in nome della necessità di convivenza. La saggezza dei popoli, quando non sia travolta dall’estremismo, dal fanatismo o dalla forza di dirompenti interessi egoistici, ci insegna che la vendetta è una catena senza fine. Questo e niente di più.

Oggi invece si vuole andare oltre, oggi si vuole un perdono assolutorio di colpe per le quali nessun uomo può aspettarsi di essere assolto come, di fatto, non lo è dalla giustizia umana che a distanza di più di mezzo secolo emette ancora sentenze nei confronti di chi è sopravvissuto ai suoi crimini. Il perdono cristiano, per chi cristiano è o tale si professi, può esserci ma anche per i cristiani nei confronti dei vivi vi è una condizione “sospensiva”: il pentimento e la promessa di non più commettere. I morti non hanno sentimenti ma i loro eredi ideologici sì e costoro trascinano nell’area del “non perdono” gli estinti, rinnovando atti e rinverdendo fedi e ideologie che riaprono ferite che si vorrebbe chiudere. Questa è la ragione, la sola forse, per la quale non si deve e non si può, come qualcuno vorrebbe, ricordare negli stessi luoghi vittime e carnefici.

Quest’ansia perdonista e assolutoria è dettata essenzialmente dalle convenienze politiche, da calcoli di opportunità, dalla strategia del giorno per giorno, dalla ricerca di alleanze destinate a durare una stagione o, al massimo, il tempo di una campagna elettorale. Bene dunque una Casa della memoria per ricordare le vittime e per ricordare anche che la pura vendetta è un istinto triste che allontana e spesso elimina la civiltà.

La memoria ufficiale, nel senso del grato ricordo per chi ha meritato nel mondo, nel suo Paese o nella sua collettività, anche questa memoria è oggetto di mercanteggiamento politico, sia riguardi i morti sia i vivi. Le annuali discussioni milanesi sull’assegnazione degli Ambrogini ne sono l’esempio più banale e recente. Nella mente di questa sciagurata classe politica i meriti veri vengono messi in secondo piano rispetto a vere o presupposte virtù di appartenenza politica tradendo in modo persino clamoroso le ragioni stesse dell’istituzione delle onorificenze.

Gli Ambrogini devono essere destinati a chi ha ben meritato nei confronti di Milano come chi ha fatto del bene alla città o ai suoi concittadini, chi con la sua vita e il suo lavoro ha reso illustre nel mondo il nome di Milano, chi in città o per la città ha commesso un atto eroico. Non amo far nomi ma a che titolo è stato dato un Ambrogino a Maurizio Belpietro, per quali meriti? Quacuno premiato con lui forse dovrebbe risentirsi della compagnia. Più o meno le stesse considerazioni le possiamo fare per chi è ricordato al Famedio del Monumentale. Tanti sono i modi per confondere la testa della gente e questo è uno: quando tanti, troppi nomi vengono messi nello stesso mazzo come chiedendo per ognuno di loro lo stesso rispetto. Á soffrirne è la memoria dei più degni

L.B.G.



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