7 dicembre 2009

LETIZIA MORATTI E LE CASERME. SETTE E MEZZO


Perché solo le caserme? Perché il sindaco Letizia Moratti solo adesso reclama dal demanio militare le caserme milanesi per il Comune? Perché il bilancio comunale fa acqua da tutte le parti e si vorrebbe poter avere le aree demaniali per poterle vendere, dopo averle rese edificabili, e far cassa. Anche Milano, come un qualunque piccolo comune italiano, dopo i tagli del Governo e il patto di stabilità interna, cerca affannosamente soldi dovunque pensi di trovarli e come il solito si va a pescare nel pozzo, erroneamente ritenuto inesauribile, delle risorse territoriali. Sul numero 36 di questo giornale Giorgio Goggi ha stigmatizzato lo scambio iniquo tra edificabilità delle aree ferroviarie dismesse e materiale rotabile per le ferrovie locali.

Faccio miei gli argomenti di principio che invoca Goggi e riprendo un mio vecchio cavallo di battaglia: il diritto della città al possesso delle aree demaniali di enti terzi – Ferrovie, Demanio militare tanto per cominciare – quando viene a cessare l’uso originario per il quale la mano pubblica, attraverso meccanismi di esproprio, ne è diventata proprietaria. Si tratta di capire sino in fondo l’origine della rendita di posizione. Il valore delle aree di una città è il prodotto nei secoli dell’attività dei suoi cittadini e della capacità degli stessi di destinare una quota più o meno rilevante del loro reddito alla realizzazione delle infrastrutture di servizio e di tutti gli edifici di uso pubblico ma anche al fascino, diremmo l’attrattiva, che gli stessi generano sia con la loro attività, sia con la loro cultura sia con la diffusione e la profondità e pervasività delle loro istituzioni sociali. Questo è il valore di una città, in parte economico e in parte immateriale ma rappresentato monetariamente dal valore delle aree edificabili.

Dunque, se i beni pubblici dei quali questa città si è dotata perdono di necessità rispetto agli usi originari, la loro proprietà deve rimanere patrimonio sociale destinato al soddisfacimento delle nuove necessità. Sotto questo profilo la loro vendita da parte del Comune non avrebbe nessuna controindicazione se vi fosse la certezza di un equo ricavo ma soprattutto a condizione che non costituisca effettivo impoverimento della collettività rispetto a un bene, il suolo, non rinnovabile come tutti ormai sappiamo. Da questo punto di vista non provo alcun sentimento di gratitudine verso la pubblica amministrazione quando sento che cerca di riappropriarsi di spazi verdi consentendo edificabilità a enti che possiedono demanio pubblico e proprietà riferibili al medesimo concetto.

Da questo anche la mia ostilità a privatizzazioni di enti pubblici che possiedano patrimoni immobiliari in qualche modo assimilabili a un demanio pubblico. Basterebbe riflettere su questi temi per concludere che quando si cedono beni collettivi ognuno di noi ne esce impoverito anche se questa cessione si configura come una vendita perché raramente, potrei dire quasi mai, questi denari vanno a ricostituire patrimonio duraturo per la collettività e con un reale contenuto di equità tra cittadini.

Non ci vuole molta fantasia per immaginare come potrebbe essere Milano se il Comune potesse entrare in possesso di tutti i beni demaniali compresi nel suo territorio e li destinasse alla soddisfazione delle necessità dei suoi cittadini, dal verde pubblico alle case per i meno abbienti e per i giovani che sono la nostra vera ricchezza e la nostra speranza.

Non possiamo oggi pretendere che una tendenza consolidata in direzione totalmente contraria – la cessione ai privati di diritti edificatori che consentono la lucrosa vendita di beni demaniali – improvvisamente si ribalti ma se Letizia Moratti si avviasse per questa strada e come si dice, tenesse duro, considereremmo l’ostilità delle forze politiche della sua maggioranza sempre più strumentale al vecchio mai tramontato disegno delle mani sulla città. Il voto questa volta è sette e mezzo.

 

L.B.G.



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