17 maggio 2016

LA STRANA VITA DEL CICLISTA URBANO

Tra pedoni, ciclisti e automobili chi è l’utente debole?


Ho fatto una ricerca su Google: “ciclisti indisciplinati”. Quello che ne viene fuori è un panorama assurdo e incredibile. Teolo Moreno Valdisolo (Padova), Reggio Emilia, Sovico e Macherio (Monza e Brianza), Cremona. Questi i primi nomi dei comuni nei quali sindaci e altre autorità hanno “dichiarato guerra” alla terribile piaga delle biciclette. Il sito “sicurauto” parla dei ciclisti come del “nuovo incubo di Milano”.

06d'onofrio18FBPerché tanta acrimonia, nel nostro paese e anche nella nostra città, verso il mezzo di trasporto considerato unanimemente come il più efficace ed efficiente, pulito, economico, poco ingombrante, adatto a percorrere le distanze milanesi e persino quelle tra l’hinterland e la città? Perché, invece, non avviene l’esatto contrario, non viene premiato e incentivato l’utilizzo della bicicletta, non si lavora per rendere le strade sicure e accoglienti, non si garantisce la sosta con le strutture adeguate?

Il mio ultimo articolo qui su ArcipelagoMilano dedicato alla ciclabilità ha suscitato diverse risposte, alcune delle quali sono del tenore degli articoli sopra citati. Il ciclista urbano è visto come l’attentatore della vita del pedone, si disinteressa delle regole del Codice della Strada, si muove con arroganza su marciapiedi e strisce pedonali.

Io credo ci sia bisogno di un po’ d’ordine e di guardare le cose da un diverso punto di vista, partendo dal concetto di utenze “deboli” e “forti”. Uno sguardo veloce, preso da Street View, di corso Buenos Aires ci mostra chi, in una strada commerciale, frequentatissima di Milano è l’utente “forte”: l’automobile ha a disposizione circa 25 metri su 30. In questi 25 metri la bicicletta ha vita dura, si barcamena tra auto in movimento, auto in sosta regolare, sportelli che si aprono, auto che si fermano in doppia fila, auto che entrano ed escono dalle vie laterali. Il pedone dal canto suo ha a disposizione 5 metri, divisi in due strisce d’asfalto, chiuse da una barriera di auto, dove sono collocati pali, semafori, scale della metropolitana, dehors, chioschi, edicole.

La bicicletta è un ibrido, si pone in mezzo, inaccettabile da due mondi tra loro rigorosamente separati e non comunicanti se non in spazi (le strisce pedonali) e tempi (i semafori) accuratamente definiti. L’infrastruttura stradale, che nel nostro paese è cambiata in sessant’anni a solo uso e consumo delle autovetture, perdendo la sua funzione principale che è quella di spazio pubblico, connettore tra i luoghi di vita e luogo di vita esso stesso, non prevede l’esistenza di una bicicletta.

Allo stesso modo il Codice della Strada è concepito pensando alle automobili e alle loro caratteristiche, imponendo ai velocipedi regole e divieti necessari per mezzi da un paio di tonnellate, non da 15 kg. In queste condizioni chi va in bici si protegge, si adatta al contesto: confinato in un limbo e condannato a dover diventare “massa” senza nessun incentivo a farlo, cerca il suo spazio. Ciascuno come può. Qualcuno sbagliando, ignorando il necessario rispetto per chi è ancora più debole di lui e pretendendo spazio là dove il pedone già si affatica (e vede il ciclista come il primo nemico, non rendendosi più conto che il suo spazio è stato mangiato via da ben altri mezzi). Qualcun altro, la maggior parte, provando a trovare il suo spazio in mezzo alle auto.

Esistono, certo, i percorsi ciclabili, piste e corsie, che vengono usate da coloro che percorrono quegli specifici tratti, ma è il contesto di base, il pensiero di fondo che deve cambiare. Chi va in bicicletta vuole andare da A a B nel modo più semplice possibile, così come ogni persona che deve muoversi. Se una città vuole premiare questo modo di spostarsi, e non vedo come sia possibile il contrario, date tutte le positività che ciò comporta, va assecondato questo desiderio.

Un qualsiasi sguardo alle fin troppo note città del Nord Europa ci mostra la strada: sicurezza nei quartieri grazie a velocità limitate, spazi ampi al posto di anguste piste dove non sarà mai possibile superare chi procede più lento o usare bici per portare bambini o pesi, percorsi aperti, così che a ogni angolo si possa cambiare strada e scegliere la via migliore, percorsi continui e segnalati, che aiutino la visibilità, strade lisce e ben tenute, senza lastre di pietra o binari inutilizzati, strade senza sosta abusiva, senza sosta sui marciapiedi, dove lo spazio torni ad essere di tutti, luoghi dove poter fermare la propria bici e poterla legare facilmente.

La ciclabilità deve essere seducente, se ne deve percepire l’importanza, si deve far sentire a chi pedala che la sua è la scelta giusta per la città, non un vezzo, non una stravaganza, una scelta controcorrente, da “amici della bicicletta” (una definizione che trovo personalmente insopportabile). Il risultato che si ottiene è quello di una città più efficiente, più pulita, con meno incidenti e con un maggior rispetto delle regole da parte di tutti, perché tutti sono parte di quelle regole.

Credo che a Milano, pur con l’aumento dei km di piste e dell’offerta di bike sharing, manchi ancora il cambio di mentalità su questi temi. Non è un percorso breve né facile ma è il migliore possibile per risolvere tanti dei problemi di mobilità che viviamo in città.

 

Stefano D’Onofrio



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