19 ottobre 2009

LODOVICO BELGIOJOSO E I SUOI CENTO ANNI CHE NON DIMOSTRA


Vi sono due età, quella anagrafica che a un certo punto s’interrompe e quella che destina all’oblio o che a questo si può opporre anche per sempre. Le due età non hanno una vera relazione se non fosse per quello che si è fatto o non si è fatto nella vita. Nel caso di Lodovico Belgiojoso architetto, maestro e uomo carico di humanitas la vita non ha lesinato successi e sventure. I successi professionali legati agli amici (Ernesto Rogers, Giangio Banfi e Aurel Peressuti) sono stati conquistati con intelligente determinazione e impegno civile. Nel 1982 ho voluto sottolinearli al Padiglione d’Arte Contemporanea con una mostra dal titolo ” L’Impegno Permanente” di cui mi sono voluto occupare, ponendo attenzione sulle opere milanesi che tutti in gran parte conoscono come la Torre Velasca, il restauro del Castello Sforzesco, il complesso di via dei Chiostri, il palazzo di Piazza Meda e cosi via.

Ora nel centenario dalla nascita vorrei parlare dell’uomo, cosa assai più difficile e impegnativa perchè è inevitabile entrare nella sfera privata, infilarsi nelle pieghe di rapporti personali che possono svelare le sfaccettature di una personalità che è stata protetta dall’immaginario che spetta al personaggio pubblico.

Di nobilissima famiglia milanese oltre all’educazione aveva coltivato il senso dell’humanitas, “fondata sulla rivendicazione dei valori umani (razionalità e libertà) e sull’accettazione dei suoi limiti (fallacità e fragilità), da cui conseguono i due postulati della responsabilità e della tolleranza”. A lui era ben noto questo significato, chiarito da Erwin Panofscky, e lo aveva assunto declinandolo nelle diverse fasi della sua vita costruendo amicizie, sacrificandosi con generosità nei momenti delle scelte importanti, parlando con il suo Dio con cui scendeva a patti e compromessi che riteneva leciti.

Ho avuto molto tempo per ascoltarlo: prima come studente a Venezia, poi come assistente al Politecnico di Milano, infine come amico nei lavori in cui ero stato chiamato a metter mano su qualche opera che portava la firma dei BPR. Il maestro e amico raccontava e consigliava cercando il lato migliore delle cose, riservando alla scala dei valori degli accadimenti considerazioni che facevo mie. All’architettura assegnava valori morali, una grande fede sulla forza del pensiero che costruisce, lega e non divide.

Era un uomo profondamente buono e in molte occasioni dimostrò come si possa cedere il passo anche contro voglia. Nella sua amicizia si poteva contare, come lui stesso poteva contare su quella degli altri, i suoi soci di studio, i suoi compagni dei campi di concentramento, la famiglia, le persone citate e sottintese nelle poesie e nei racconti che aveva scritto e continuava a scrivere.

Passava parte delle estati nel castello di Caidate e a Stintino, ospite di un’amica cui aveva progettato e costruito una piccola casa in mezzo alla macchia mediterranea. In quella casa, nella quiete più assoluta, conduceva una vita semplice tra gli odori della macchia, il mare cristallino e le attenzioni di un mondo locale pieno di fascino.

Sulla sua tomba, nel piccolo cimitero di Caidate, un mazzolino di mirto misto a rosmarino è ancora un eloquente segnale della memoria duratura di alcuni sentimenti, coltivati trovando il tempo di ascoltare e voler bene alle persone che avevano risposto al suo desiderio di essere a sua volta ascoltato nei tormenti di una vita di successi ma anche di grandi dolori.

Antonio Piva



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