20 novembre 2013

TRA PUBBLICO E PRIVATO: LA BUONA “GOVERNANCE”


Il piccolo manuale per la buona governance delle società ed enti a partecipazione pubblica (quello promosso da ArcipelagoMilano) é un utile strumento analogo a quello che offre istruzioni teoriche per imparare a guidare un’auto. Per avere la patente bisogna però prima fare pratica. Non sembra questo il caso degli amministratori di queste società che potrebbero essere nominati dalle amministrazioni pubbliche pur avendo competenze inadeguate e poca pratica sui modi in cui amministrare queste società. Questa situazione, a cui il manuale cerca di far fronte, é di per sé un dato preoccupante: i soggetti pubblici sono vogliosi di possedere, ma non riescono a nominare un personale capace di gestire, poiché il criterio di competenza é affiancato o dominato da quello che chiamiamo politico, o di appartenenza. In questo, a mio avviso, gioca la pulsione conscia o inconscia al potere più che non l’attenzione all’interesse collettivo: si é propensi a ritenere che “possedere” sia preferibile rispetto a “esercitare il ruolo di utente pubblico e di regolatore in modo serio”.

03silva40FBIl problema della governance di queste società non é però affrontabile solo con un bigino: va collocato in una prospettiva più ampia. Tutte le società di capitali si trovano a mediare tra gli interessi degli azionisti e quelli degli “stakeholder” privati – lavoratori, creditori, fornitori, clienti, etc. – e pubblici – che chiamiamo “territorio”-, e lo fanno in modo diverso a seconda della loro natura e delle circostanze. Le società di capitale di servizio pubblico, e soprattutto quelle municipalizzate, più di altre devono però fare i conti con una forte presenza di stakeholder pubblici: i cittadini con i loro diritti di cittadinanza, le tradizioni e la cultura locale, le diseconomie esterne prodotte dalla cittadinanza stessa – rifiuti, inquinamento atmosferico, etc. Chi gestisce queste società deve gestire il traffico di diverse forze spesso divergenti e deve sapere mediarle al meglio: é richiesto agli amministratori un lavoro difficile. Il quesito é allora: per far fronte ai diversi interessi pubblici é necessario o é meglio che il soggetto pubblico possegga azioni oppure che controlli/orienti la società dall’esterno?

L’essere azionisti si giustifica se per tal via si é in grado di far governare manager o amministratori particolarmente capaci nella mediazione tra i vari interessi, oppure se si é interessati a una politica di dividendi favorevole. Come si é visto la prima ragione non é certo la regola e la seconda, qualora esasperata, può essere lesiva per la società stessa, perché colpisce la sua capacità di investire o di far fronte ai debiti, a protezione dei quali vi sono spesso nelle s.p.a. quotate opportunamente, le società di rating. Gli azionisti seri dovrebbero aver presente il funzionamento e le esigenze delle società di capitale. A monte delle scelte sui dividendi vi sono però quelle che influenzano la redditività della società, ed é soprattutto qui che si gioca la partita tra l’essere azionista e stakeholder, partita indubbiamente lacerante, se presa seriamente.

Si noti, per inciso, che in molti casi accanto all’azionista pubblico vi é quello privato, così che l’eventuale subalterneità dell’azionista rispetto allo stakeholder lede gli interessi del primo e di conseguenza la possibilità di sviluppo prospettico della società, stante l’incapacità delle amministrazioni pubbliche di accompagnare le politiche aziendali di sviluppo. Da questa eventuale negligenza non trae dunque gran giovamento neppure l’amministrazione pubblica.

Ma torniamo al punto. Se l’azionista/stakeholder pubblico si fa carico di interessi pur sempre collettivi, ma in qualche misura difendibili autonomamente da soggetti diversi dall’amministrazione pubblica – si pensi al sindacato – in realtà esonda, svolgendo un ruolo di per sé improprio. Diverso é il caso degli interessi effettivamente pubblici, come l’ambiente, o l’attenzione al territorio e alla cittadinanza. Qui l’elemento dirimente é una valutazione: é preferibile incidere sulle scelte per via contrattuale, tramite contratti di servizio o accordi di vario genere e farli rispettare, oppure esercitando proprio ruolo di azionista nei consigli di amministrazione, essendo peraltro consapevoli che si potrebbero in tal modo ledere gli interessi dello stesso azionista?

Forse non solo per via di Freud, ma anche per un’oggettiva scarsa conoscenza dei meccanismi societari i politici privilegiano la seconda soluzione. La mia convinzione é invece che la prima via sia preferibile, anche se richiede un’amministrazione ben organizzata. Tuttavia, se si pensa o si é costretti a pensare diversamente, bisognerebbe allora essere consapevoli che la società trova una maggiore chiarezza gestionale quando non mescola voci politiche e private dissonanti in un unico consiglio di amministrazione. Meglio sarebbe disporre di ambiti separati, come offre il sistema dualistico.

 

Francesco Silva

 



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