8 giugno 2009

LA CITTA’ DI FRONTE ALLA CRISI FINANZIARIA


L’attuale crisi finanziaria è dovuta alla crisi del mercato immobiliare. Questo significa che il boom finanziario è stato sostenuto negli ultimi anni dal comparto immobiliare. L’analisi rivela che indice immobiliare e indice borsistico procedono quasi in parallelo: il primo condiziona il secondo. Prezzi alti degli immobili uguale a prosperità finanziaria. Caduta dei prezzi uguale a crisi finanziaria. I primi a essere colpiti sono i paesi che hanno segnato indici di sviluppo migliori: prima gli USA, patria dei subprime, poi, in Europa, Spagna e Irlanda. In buona parte la prosperità recente era dovuta alla finanziarizzazione spinta del mercato immobiliare. Un vantaggio relativo viene all’Italia dal fatto che i fondi immobiliari sono solo di recente istituzione.

Si apre una contraddizione tra globale e locale che pone un problema politico rilevante: la ripresa dei valori immobiliari è necessaria per uscire dalla recessione, ma la caduta dei prezzi degli alloggi non può essere considerata un male, visto il bisogno di alloggi nelle nostre città. La politica statale e sovranazionale deve fronteggiare la crisi rifinanziando il sistema e caricando i debiti sulla fiscalità generale, sul debito pubblico e sull’inflazione (vedremo in quali percentuali). Ma la politica locale deve fare altri tipi di considerazioni. L’approccio liberista al problema casa prevede offerta territoriale in abbondanza (se cresce l’offerta diminuisce il prezzo … in teoria): in realtà la bolla immobiliare fino ad oggi ha fatto sì che crescesse il valore dei suoli e contemporaneamente crescesse il fabbisogno di case. Si è operato solo per sostenere l’offerta (grazie al land banking) senza sostenere i diritti della domanda (bisogno di alloggi a prezzi contenuti). Il problema è che dal lato dell’offerta agiscono i meccanismi macroeconomici (finanza immobiliare, fondi chiusi, attività di trading, ecc.), mentre dal lato della domanda la pubblica amministrazione può operare solo con meccanismi micro economici residuali (oneri di urbanizzazione, finanza di progetto, convenzioni, ecc.), tutti subordinati all’effettiva valorizzazione immobiliare (se si concede poco si ottiene poco, …).

Di fronte a questa realtà oggi le amministrazioni operano secondo due modelli entrambi subalterni alle ragioni della rendita e di dubbia efficacia. Il primo modello è il sodalizio con la rendita: favorire la crescita dell’offerta immobiliare per compartecipare agli utili. Le recenti normative urbanistiche vanno in questa direzione (perequazione, urbanistica contrattata, PII, ecc.). Il modello normativo potrebbe anche essere condivisibile ma non sono esplicitati i punti di forza sui quali dovrebbe far leva l’azione della pubblica amministrazione (solo il suo ruolo concessorio e sanzionatorio?). Questo modello è prevalente e oggi culturalmente egemone. Il secondo modello è un po’ un ritorno alle origini. Si sottolinea il peso storicamente (fin dall’unità d’Italia) preponderante della rendita fondiaria nell’evoluzione della città italiana e si auspica che i comuni riprendano un ruolo decisivo nella pianificazione territoriale. E’ la visione della sinistra storica e quella prevalente tra gli urbanisti tradizionali. Dunque, alcuni parlano del futuro della città solo in termini macroeconomici, ragionando su domanda e offerta, calmieramento dei prezzi, legittimità degli interessi legati alla valorizzazione della rendita, di perequazione, eccetera; altri parlano di urbanistica con le lacrime agli occhi, depositari di una disciplina che ha vissuto ben altri splendori, vittima oggi del mercato e degli appetiti speculativi.

Nel primo caso la città scompare come organismo e soggetto, come luogo del progetto, e diviene semplicemente suolo da valorizzare e mettere in vendita: chi non può coniare moneta può sempre distribuire volumetrie. Nel secondo caso la città è il palinsesto di una progettualità accademica e impotente. In realtà è tutto il dibattito sulla città che deve essere riallineato al dibattito sull’economia. C’è però anche un problema storico-politico interessante su cui si può aprire una discussione: il comune è anche, e tale è sempre stato considerato e vissuto nella storia d’Italia, una componente della società civile piuttosto che un organo di decentramento del potere statale. Se recuperiamo almeno in parte questa concezione, possiamo utilmente attribuire al comune un ruolo di contenimento della rendita fondiaria, valorizzando maggiormente il suo essere comunità locale che non il suo essere un pezzo di stato.

La vera penuria dei comuni non è dovuta alla contrazione dei trasferimenti statali o alla limitata capacità impositiva (che pure sono elementi molto significativi), ma all’esplosione della rendita fondiaria. Finché non ci renderà conto di questa verità e non si predisporranno contromisure adeguate, le politiche dei comuni non potranno che produrre effetti perversi e paradossali: per fronteggiare le emergenze fiscali si favorisce la rendita fondiaria, e questo produce effetti negativi sulle finanze comunali. É il più classico dei circoli viziosi.

Prendiamo il caso del mercato delle abitazioni tra gli immigrati: questo settore rappresenta il 15 % del mercato delle abitazioni a livello nazionale. Si tratta di una quota considerevole, sempre in aumento negli anni, ma che oggi segna un forte rallentamento che merita qualche riflessione. Il numero di acquisti diminuisce del 22,5% rispetto al 2007 causando una riduzione del fatturato del 27,4%. Il mercato etnico degli alloggi è stato, in piccolo, quello che ha rappresentato in America la bolla dei mutui subprime. Hanno molto lucrato i soggetti dell’intermediazione immobiliare, sottacendo ai clienti, acquirente e venditore, sia il prezzo reale dell’acquisto che il reale prezzo della vendita e contrattando col compratore unicamente la rata del mutuo. In questo mercato, così poco trasparente, i venditori hanno guadagnato qualcosa, ma gli intermediari hanno guadagnato moltissimo. Hanno invece pagato molto gli immigrati, ai quali sono stati ceduti alloggi a costi irreali, condizionando attraverso i mutui la qualità della loro vita e il buon esito del loro inserimento sociale, orientandoli al mercato illegale, con i subaffitti e l’affitto di posti letto, ghettizzandoli quindi in un sottosistema etnico senza prospettive. Gli esiti sociali di questo malcostume sono ben visibili nelle nostre periferie: appartamenti sovrappopolati, affitti al nero di posti letto, disordine condominale nei pagamenti delle spese, pignoramenti, alta mobilità.

Tutto ciò ha pesato in maniera considerevole sulle finanze comunali, sono cresciute le pressioni sociali, gli allarmi sulla sicurezza, le esigenze di spesa corrente. Le responsabilità sono di diversi soggetti: delle banche che per anni hanno fatto prestiti al 100/120% del valore di un alloggio già sovrastimato, della Banca d’Italia, che dovrebbe controllare l’operato delle banche, dei professionisti, che spesso fanno atti senza le dovute ricognizioni, degli ordini professionali, che dovrebbero controllare l’operato dei loro iscritti (architetti, geometri, ingegneri, notai). Qualcuno in passato ha denunciato questa situazione chiedendo che gli organismi di controllo facessero la loro parte: la risposta è stata il silenzio. Qualcuno, in verità, ha tentato di dare una risposta sostenendo che questi comportamenti, in fondo, favorivano l’acquisto dell’alloggio da parte degli immigrati. Un servizio sociale insomma! Questi comportamenti hanno prodotto due effetti concomitanti: hanno alimentato il mercato delle compravendite immobiliari e, di conseguenza, hanno contribuito a tenere costantemente alto il valore di tutte le case.

Non era un problema che ci fossero o meno sufficienti garanzie che i contratti sottoscritti fossero rispettati. Un immigrato, ovviamente regolarizzato, sottoscrive un contratto valutando soprattutto se riesce a far fronte, in un modo o nell’altro, alla rata mensile del prestito; se dovrà lasciare la casa qualcuno provvederà e se la casa andrà all’asta poco male perché comunque non ha versato nessun anticipo (quel 40 o 50% del valore che sarebbe normale venisse richiesto dalle banche). In effetti il nostro acquirente non ha nemmeno perso dei soldi, comunque non tanti, perché le rate mensili che ha pagato per il rimborso del prestito equivalevano più o meno al costo di un affitto. Quella stessa casa, prima che venga pignorata o messa all’asta, avrà comunque svolto una doppia funzione: di servizio, come alloggio per coloro che l’hanno utilizzata, e finanziaria, contribuendo ad incrementare il prezzo di mercato delle case. E’ chiaro infatti che se viene ipervalutato un alloggio di scarso pregio, questo trascina automaticamente verso l’alto tutti i valori immobiliari. Oggi, dunque, questo mercato, così promettente, entra in crisi: forse è l’occasione per fare un’operazione di pulizia e trasparenza. Questo, naturalmente, richiede che le amministrazioni pubbliche rilancino una politica degli alloggi e soprattutto una politica degli affitti, in modo da non costringere le famiglie ad accollarsi debiti pluridecennali e da favorire una certa mobilità nella ricerca dell’alloggio.

 

Mario de Gaspari



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