18 settembre 2013

ANCORA SUL COMMERCIO A MILANO: CRISI O NOVITÀ/2


Continuando il discorso possiamo domandarci: Ma allora i piccoli esercizi sono destinati a sparire? No, come non sta avvenendo. Prendiamo un esempio concreto, l’acquisto di un capo d’abbigliamento: ormai l’ampiezza della scelta è una condizione necessaria, è per questo, oltre naturalmente per il prezzo, che si va ai centri commerciali. Ma si va anche e soprattutto presso le zone commerciali perché l’acquisto è anche una esperienza “emozionale”, motivo per il quale la Grande distribuzione organizzata sta passando dai freddi centri agli outlet finti villaggio tradizionale. Ma la città, le sue zone commerciali sono “vere” e vincono su questo piano la partita con gli outlet: quello che occorre fare è organizzare gli assi commerciali, come Buenos Aires o Vercelli ma non solo, come centri commerciali a cielo aperto, migliorando qualità ed estetica ma soprattutto mettendo in comune servizi e iniziative. La gelosia tradizionale del cliente porta fuori mercato, occorre lavorare sui flussi e sulla qualità del prodotto, la concorrenza è fra zone e non fra singoli esercizi. I negozi di vicinato manterranno comunque una loro funzione non solo per la presenza degli anziani come troppo spesso si è ritenuto, ma anche e soprattutto perché la gente tende a vivere e a occuparsi del proprio quartiere, ovviamente dovendosi attrezzare alle nuove esigenze: è evidente che, con la diffusione dei telefonini che abbiamo in Italia, se accanto a farmacia e panetterie manca la telefonia, una via è “out”…

Il settore si sta quindi riorganizzando per rispondere alle nuove esigenze? Certamente e molto in fretta. I distretti urbani del commercio, intesi come zone “autosufficienti” dal punto di vista dei prodotti offerti, sono una decina e molto ampi e stanno sviluppando servizi comuni; la Gdo ha lanciato un programma di “supermercati di vicinato” con superfici ridotte, quelle stesse che venivano abbandonate con orrore e dolore fino a pochi anni fa nei quartieri residenziali, dove l’auto non solo non è richiesta ma è ampiamente sconsigliata; la Galleria e gli assi commerciali tradizionali stanno trovando una nuova formula di successo, attraverso la specializzazione funzionale, di mercato o di prodotto. Naturalmente niente è a costo zero: i conflitti con chi risiede da anni in zone soggette a cambiamenti così rapidi e forti, penso a Sarpi oppure a Porta Venezia, rischiano di essere molto aspri.

In più si affacciano nuovi attori importanti di dimensione internazionale (altro segno della vitalità di Milano come piazza commerciale), portatori di nuove formule di vendita e con marketing di prodotto molto curato, in grado di mettere in difficoltà su questo piano molti negozi attuali, nell’abbigliamento in particolare, ancora non abituati a queste armi e troppo legati alla rendita della posizione logistica: ai già presenti colossi spagnoli come Zara stanno per aggiungersi El Corte Inglés, Migros e altri ancora che hanno già cambiato e sperimentato il passaggio verso la formula del punto commerciale assortito ma specializzato con iniziative che riescono a prescindere dalla appetibilità commerciale della zona perché loro stessi impongono un cambio e una accelerazione alle vie e ai quartieri nei quali si insediano. Riescono in questo modo a sottrarsi alla spirale dei rincari degli affitti degli immobili andando in zone o vie in ristrutturazione, inventandone una vocazione commerciale. Senza dimenticare che i marchi italiani della Moda o una catena come Eataly non hanno già oggi nulla da imparare dai nuovi arrivati su questo terreno.

Milano come accoglie questo cambiamento? Milano non accoglie, vive ed è protagonista in prima persona di questo cambiamento. Quante volte ha cambiato volto e ha assecondato la creatività e il lavoro dei suoi cittadini dando vita a formule originali? La Milano del Rinascimento, quella degli artigiani che arrivano da tutto il mondo per lavorare e che restano per vivere sviluppò il modello “casa-bottega”, creando quello stile pratico- estetico che usava i suoi navigli per la logistica, i cortili di casa per il lavoro e il lungo mura per i commerci, in maniera da tenere le merci a cavallo del dazio. Il modello rimase valido, allargando e consolidando le officine “interne” che sono sopravvissute fino a oggi per trasformarsi in “loft” fino all’arrivo delle grandi fabbriche alle periferie: nascono accanto i quartieri operai, i Navigli perdono funzione e vengono coperti, facendo rivoltare Stendhal nella tomba ma migliorando la salubrità della città.

La Milano di oggi ridisegna se stessa partendo dai grandi spazi lasciati vuoti dalle scomparsa degli stabilimenti e, dopo aver corso il serio rischio di consegnare la guida del proprio cambiamento a costruttori di parallelepipedi di vetro e cemento, si sta riappropriando delle scelte, dall’Isola a Santa Giulia, chiedendo a gran voce innanzitutto una tutela della qualità della vita, che è certamente nuova consapevolezza ambientale, mobilità sostenibile ma anche e forse soprattutto luoghi di vita, lavoro e socializzazione di nuova generazione. La piazza, la chiesa e il mercato sono ancora i luoghi dove questo cambiamento si misura.

Cosa si chiede, cosa fa e cosa può fare il Comune per il commercio? Non intendo ripetere la solita solfa relativa agli scarsi o nulli poteri locali: a Milano “si va in Comune” da sempre, sicuri di trovare qualcuno che quantomeno condivida e valuti un problema e questo dobbiamo fare anche noi oggi. Ma effettivamente la potestà municipale sul commercio è completamente azzerata e non tutti se ne rendono conto. Si prenda il caso delle imposte locali: sono meno del 2 per cento di pressione fiscale eppure non passa giorno senza che qualcuno attribuisca a queste “stangate” la crisi di una impresa se non quella dell’intero settore!

Il Comune ha però una responsabilità morale di governo del settore, a prescindere dal potere effettivo: favorire la convivenza fra traffici e popolazione residente, far rispettare le regole sostanziali del commercio tutelando i consumatori, garantire un ambiente nel quale l’iniziativa degli imprenditori commerciali si possa sviluppare in maniera armonica. Per far questo è stato innanzitutto necessario dirimere una quantità assolutamente assurda di conflitti sparsi per la città che le passate amministrazioni ci hanno lasciato in eredità, cercando di capirne le origini e le ragioni ma soprattutto cercando di superarle.

Non vi è dubbio che il principale errore del passato è stato pensare che l’Amministrazione pubblica fosse un giudice che dovesse individuare ragioni e torti, l’effetto è stato una maionese impazzita che vedeva sostenere alternativamente ora le ragioni degli uni ora quelle degli altri a seconda dei quartieri e a volte nella stessa via. La convinzione che il bene comune fosse la somma del bene di ciascuno, per chi conosce il diritto amministrativo il travisamento dell’interesse legittimo in diritto soggettivo, come se una invisibile cornucopia (altro che la mano invisibile del mercato…) distribuisse beni e ragioni per tutti ha portato all’esplosione degli egoismi individuali e di impresa che faticosamente si sta cercando di superare.

Come sta agendo in concreto il Comune? Usando le istituzioni esistenti, dai Consigli di Zona ai Distretti Urbani del commercio, moltiplicando le occasioni di confronto con cittadini e categorie, con grande fatica si sta ricostruendo un terreno comune di confronto e di iniziativa, spingendo cittadini e imprese a parlare fra loro e fra colleghi privilegiando le azioni comuni rispetto a quelle individuali. Nessun miracolo è avvenuto a Milano, ma i conflitti dal 2010 a oggi si sono quasi azzerati, sono in corso decine di progetti partecipati e diffusi per la città.

Collaborare è meglio che combattersi, anche nel commercio. Il Comune favorisce queste pratiche non perché è “buono”, ma perché è pragmatico: di fronte ai risultati nulli e ai danni del passato, in fondo non è nemmeno tanto difficile fare meglio …

 

Franco D’Alfonso

(2 – continua)

 

 



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