11 settembre 2013

IL COMMERCIO A MILANO: CRISI O NOVITÀ


Come sta il commercio a Milano? Difficile avere una risposta univoca dai tanti che si interessano al tema, dai commercianti che piangono ai giornalisti che enfatizzano, alle autorità che minimizzano per arrivare ai residenti che si incazzano, come i francesi per il passaggio di Bartali nei versi della canzone di Paolo Conte.

Come tutte le grandi città Milano non è mai stata monoculturale, come Torino per l’industria o Firenze per il commercio, ma proprio per la convivenza tra attività commerciali e produttive si è sviluppata come la più grande e la più ricca “piazza” d’Italia e una delle prime e più vive in Europa. L’ondata immigratoria degli anni cinquanta provocata dallo sviluppo delle grandi fabbriche portò linfa vitale all’imprenditoria commerciale milanese con il massiccio arrivo di decine di migliaia di pugliesi arrivati da grandi centri come Bari, con alle spalle una storia millenaria di traffico merci non solo dal contado alla città ma verso tutto il mondo.

La vivacità del commercio locale ne beneficiò molto, i mercati si moltiplicarono, i negozi sotto casa nei nuovi quartieri riproducevano il classico schema milanese del vicinato ma erano gestiti dai nuovi arrivati, la ristorazione si sviluppò con i “trani”. Com’è noto questo nome, originato presumibilmente dalla circostanza che i primi (non tutti e nemmeno la maggioranza) osti pugliesi venissero dalla città di Trani, distingueva le nuove trattorie popolari dalle vecchie osterie milanesi delle quali si cominciò subito ad avere ricordo con nostalgia, lamentandone la scomparsa, mentre in realtà erano semplicemente diventate negli anni minoritarie non tanto perché diminuite di numero quanto per l’incremento delle nuove aperture.

Ho citato il “caso” delle osterie scomparse perché mi sembra il tipico esempio di come si venga affrontato qualsiasi discorso relativo al commercio a Milano: si va per sensazioni, per abitudine o tradizione, difficilmente per analisi oggettiva. Se in agosto il nostro bar abituale è chiuso o l’edicola è stata spostata per un cantiere, Milano d’estate diventa una città chiusa o sconvolta dai cantieri, se il lattaio o la merciaia che sono lì da cinquanta anni lasciano il posto a un negozio di telefoni magari gestito da cinesi, immediatamente si legge che il commercio “cade in mano” agli extracomunitari (come negli anni cinquanta ai “terun”..?) e via di questo passo. Si selezionano dati e informazioni generalmente vere a seconda della tesi che si vuole sostenere con se stessi e con gli altri, umanissima tentazione dalla quale dovrebbero però rifuggire gli addetti ai lavori, come purtroppo non avviene.

Sperando di essere un po’ meno vittima di questa sindrome che nel mio caso di assessore al Commercio mi porta a dire che tutto evolve verso il meglio soprattutto da quando sono arrivato negli uffici di via Larga, provo a dare un punto di vista sulla situazione milanese attraverso una sorta di auto intervista.

Il commercio a Milano è in crisi? Con una crisi dei consumi che per la prima volta dal dopoguerra porta un segno negativo ormai da quasi due anni non potrebbe essere altrimenti, il tradizionale pianto del commerciante ha purtroppo qualche ragione a esserci, questa volta. Ma l’incremento molto forte del flusso turistico a Milano, mentre il resto d’Italia registra una diminuzione, in termini di decine di migliaia di presenze, la comparsa stabile del turismo familiare e non solo di quello di business, sta facendo da traino a una ripresa che nel mese di agosto è stata molto evidente che sono certo si stabilizzerà presto.

Come sta reagendo il sistema milanese del commercio? Sta avvenendo quello che avviene sempre nei periodi di crisi: si sta ristrutturando e adattando, pagando prezzi dolorosi per sé e per la città, ma cercando la via per uscire. Le attività si stanno incrementando, contrariamente a quello che si crede e che qualche volta erroneamente si dice: a Milano gli esercizi commerciali sono in crescita costante con un saldo positivo da molti mesi. E la diminuzione delle vendite non è più generalizzata e nemmeno riguarda il travaso tradizionale fra cosiddetto vicinato e Grande distribuzione organizzata – Gdo – (che perde a sua volta, come detto), ma fra esercizi che hanno innovato su prodotto o formula e chi non lo ha fatto o non lo ha potuto fare.

Ma se tutti dicono che i negozi chiudono e ad aprire sono solo gli extracomunitari? I numeri non dicono questo: gli esercizi commerciali sono passati dall’inizio dell’anno a Milano da 41.600 a 42.400, con incremento uniforme di tutti i generi, dai pubblici esercizi ai parrucchieri. È un altro il fenomeno, vale a dire la diminuzione netta del numero delle imprese commerciali: le iscrizioni alla Camera di Commerci del settore sono effettivamente scese da poco più di 17 mila a 12 mila circa e anche gli ambulanti ai mercati sono passati da 3200 a 2800, ma non è la cessazione dell’attività bensì la concentrazione di impresa. Il numero di licenze, sia fisse che temporanee che su suolo pubblico, è in incremento, altro segnale chiaro e inequivocabile che è in atto un processo ancora tutto da analizzare.

Quanto agli “extracomunitari” e in particolare ai cinesi (che, sia detto per inciso, in oltre il cinquanta per cento dei casi sono nati e cresciuti a Milano e sono cittadini italiani) il loro peso è in crescita, ovviamente, dal momento da qualche anno hanno cominciato a uscire con successo (saranno mica i nuovi pugliesi del commercio…?) dai quartieri come Sarpi e dal genere ristorante cinese etnico. Si tratta del 10-15 per cento al massimo del totale esercizi gestiti da stranieri, percentuale ancora inferiore alle presenze di popolazione non italiana a Milano (270 mila persone vs 1,3 milioni di residenti). Nessuna “invasione”, quindi, anche se non vi è dubbio che alcuni usi e costumi, soprattutto relativi al passaggio di denaro, siano oggetto di attenta analisi da parte delle autorità. Senza dimenticare, tuttavia, che da questo punto di vista l'”integrazione” di comportamenti e anche di altri rapporti fra etnie diverse è molto più veloce dell’integrazione nei quartieri.

Allora la crisi dei negozi di vicinato non c’è? Il negozio di vicinato è in crisi da tempo e non solo per la pressione della Gdo. La città che aveva l’orologio caricato e regolato da fabbriche e uffici, chiusura alle 19 e dopo Carosello bambini a letto e agosto tutti al mare non c’è più. Le abitudini sono cambiate, i tempi di lavoro e di vita sono diversi, la domenica è diventato spesso il secondo giorno della settimana di vendite. È difficile per il tessuto tradizionale rispondere a queste nuove esigenze e le barriere di protezione basate su divieti e contingentamenti i non esistono più: paradossalmente sono proprio gli stranieri nuovi arrivati a tenere in vita la vecchia formula dell’aumento delle ore di lavoro pro-capite per non perdere vendite. L’incremento del tempo di apertura commerciale, come era ovvio, ha portato a un limitato incremento di vendite complessive, ma l’effetto maggiore è stato quello di assecondare cambiamenti di abitudine di acquisto dei consumatori: l’offerta con un orario più lungo ha favorito la moltiplicazione degli accessi e il frazionamento degli acquisti, cui si è aggiunta, con la crisi, una maggiore attenzione ai consumi con effetto, sull’ esempio degli alimentari, della diminuzione delle spese “familiari” a favore di più acquisti periodici e frazionati, con evidenti risparmi nei consumi. Il mondo è cambiato.

Franco D’Alfonso

(1 – continua)

 

 

 



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