24 maggio 2009

RITORNO ALLA CITTA’


La città contemporanea, la città italiana in particolare, è sottoposta a una duplice tensione che, inesorabilmente, giorno dopo giorno rischia di impoverirne le virtù: da un lato il senso di appartenenza della comunità insediata, quella storica, dall’altro l’utilizzo funzionale e impersonale che ne fanno i gruppi che occasionalmente si insediano nel suo spazio. Vi sono poi le richieste degli utilizzatori del territorio urbano, i cosiddetti users, i cui diritti sono altrettanto legittimi e irrinunciabili.

A dichiarazioni d’amore smodato verso la città corrispondono altrettante confessioni di disincanto quando non di dichiarato rancore.

 

Forse la città moderna è una formazione sociale sostanzialmente antidemocratica, priva di governo reale, essendo ormai la forma astratta, pienamente raggiunta, del processo storico di individualizzazione del bene pubblico. Il vero governo della polis non abita più nella casa comunale, ma è il prodotto dell’intreccio di una pluralità di interessi finanziari. Il suolo non è più indivisibile patrimonio collettivo della comunità insediata ma un asset finanziario di prima grandezza.

La stessa pianificazione urbanistica pare destinata a divenire una pratica sempre più debole, residuale e sancitoria, per lo più incapace di ridare senso e prospettiva ad uno spazio urbano tendenzialmente ridotto a merce astratta.

Infatti la complessità raggiunta dalle obbligazioni, di natura giuridica, economica e finanziaria, che adattano alle dinamiche della società capitalistica lo spazio urbano è fonte di un inesorabile processo di alienazione che condiziona in profondità i rapporti sociali e le esistenze individuali. E, naturalmente, condiziona in maniera sempre più decisiva il governo della città stessa.

 

Questo processo di alienazione condiziona esistenze e relazioni in maniera duplice: da una parte richiede all’individuo il possesso di quote del bene comune astratto, cioè del suolo, dall’altra interferisce pesantemente e, per così dire, deterministicamente, sulla morfologia del manufatto urbano stesso. In altri termini, siamo tutti un po’ azionisti della città, se possediamo almeno un alloggio, ma il nostro contributo alla costruzione della città stessa rischia di essere simile a quello che un piccolo risparmiatore può avere sulle scelte di una grande compagnia.

 

Una volta che il legame organico tra il territorio e la comunità dei viventi è perduto, la città smarrisce la sua anima, i luoghi diventano siti, cioè perdono il proprio significato storico/affettivo e ne acquisiscono uno puramente monetario. E così la responsabilità di ciò che accade non è più di nessuno, perché nessuno ha individualmente la capacità di condizionare il destino della città.

La pianificazione urbanistica rappresenta in qualche modo il bisogno e insieme il tentativo di reintrodurre nel territorio antropizzato l’elemento comunitario che altrimenti non troverebbe spazio in una struttura spaziale ormai del tutto irretita nelle dinamiche dell’economia.

James Hillman definisce l’anima della città attraverso quattro idee rappresentative: la riflessione, la profondità, la memoria emozionale, le immagini e i simboli. Che spazio hanno oggi queste idee nella realizzazione del disegno urbano?

 

In un certo senso la città contemporanea tradisce il suo scopo originario, rendendo difficile, problematico e non spontaneo proprio ciò per cui era stata inventata. Prodotto di qualcosa di istintuale negli esseri umani, cioè dell’esigenza di stare insieme, di immaginare, parlare, fare, scambiare, la città contemporanea rende tutto ciò molto complicato. Ciò che è necessario all’uomo per la propria realizzazione e l’autostima, richiede un surplus di competenza sociale che è tutt’uno con l’ansia, il disagio, la nevrosi.

E a nulla giova pensare ad un nuovo rinascimento urbano fondato sulla ripresa del ciclo economico e su una rinnovata disponibilità di risorse pubbliche. Anzi, la storia della città europea ci dice esattamente il contrario. Il ciclo virtuoso della città, come dimostra Mumford, corrisponde spesso, e con maggiori probabilità di successo, al ciclo negativo dell’economia. La grande mobilitazione del dopoguerra dimostra che un’opera di ricostruzione su vasta scala è possibile solo se le risorse economiche vengono orientate ai bisogni umani. E’ con la ripresa economica che, più facilmente, ricompaiono le caratteristiche irrazionali di uno sviluppo distorto della città.

 

Oggi la città è inevitabilmente il luogo in cui interagiscono due processi contraddittori che ne tormentano l’esistenza: da una parte la ricerca di una dimensione comunitaria, il cui desiderio da parte dei cittadini non si è mai affievolito, dall’altra la continua immissione nel tessuto civico di corpi estranei che rendono difficile la metabolizzazione di un disagio già comunque presente. La città diviene realmente il luogo in cui si incontrano i “rappresentanti dell’umanità” e in cui tutto il mondo si riverbera, secondo la splendida visione di Mumford. Il problema è che il mondo non è il regno della felicità e della pace perpetua, ma il teatro di mille conflitti e che l’umanità non si presenta come una specie di viventi

orientata al benessere e alla pace. Ed è questa l’immagine del mondo che si rispecchia sulla città. Siamo dunque entrati in una fase nuova della storia della città, in cui l’irrompere della dimensione globale dilata a dismisura e nello stesso tempo censura, rendendolo ingovernabile, l’enorme disagio che la città moderna porta da tempo dentro di sé.

Il tema della sicurezza urbana appartiene interamente al tema della trasformazione della città moderna così come si sta oggi configurando.

Lasciare l’evoluzione della città in balia del libero intrecciarsi delle forze economiche non risolve i problemi. Siamo noi responsabili di ciò che avviene dentro le città: occorre quindi una nuova consapevolezza basata sull’esperienza e sull’impegno verso il presente e verso il futuro.

“Edificare quartieri urbani che sembrano fatti su misura per favorire la criminalità è idiota: eppure è proprio ciò che andiamo facendo”. Così scriveva quasi cinquant’anni fa l’antropologa americana Jane Jacobs in un libro ormai diventato un classico della sociologia urbana. E, per contro suggeriva: …”il punto di partenza dovrà essere in ogni caso il potenziamento di tutte le forze già esistenti atte a difendere la sicurezza e la convivenza civile nelle città quali esse sono”. Ecco, una politica per la sicurezza urbana si fonda prima di tutto su una nuova cultura della città, una cultura capace di valorizzarne e armonizzarne tutte le componenti. Non basta affermare genericamente l’adesione ad un approccio orientato alla prevenzione, bisogna esplicitare con chiarezza su che cosa incardinare la prevenzione stessa.

Mario De Gaspari

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 



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