9 luglio 2012

GENERAZIONI, CULTURA E MATTONE


Qualche giorno fa un quotidiano molto rispettato, con cui saltuariamente collaboro, mi ha posto una serie di significative domande a partire dagli episodi dell’occupazione da parte di Macao della Torre Galfa e di Palazzo Citterio, in particolare sul rapporto tra i giovani e la città (una città come Milano specialmente) e sulla disponibilità di luoghi pubblici per attività artistiche o semplicemente di socialità ludica o creativa. Sono problemi importanti sui quali penso valga la pena di tornare: infatti mi pare si profili un contrasto, una contraddizione, chiamatela come volete, tra una classe colta che ha in mano il grosso delle istituzioni e degli spazi in cui si svolgono attività “culturali”, in senso ampio, e un mondo (a mio avviso in crescita) che vuole partecipare, ma in prima persona e non solo da semplice spettatore alle attività culturali della città.

Si usa sempre confrontare un po’ grossolanamente la situazione attuale con gli anni sessanta e il ’68, periodo in cui la città era stata in buona parte ripresa in mano, soprattutto da una popolazione giovane. Ovviamente questa riconquista fu anche conflittuale, militante quando non decisamente militare e la famosa sera del 7 Dicembre in cui Mario Capanna e anche non pochi operai terrorizzarono il pubblico elegante della Scala. L’episodio fu tutto sommato abbastanza modesto, ma venne caricato di un valore simbolico estremo. La borghesia milanese veniva minacciata nel suo tempio e se avesse avuto a disposizione un reparto di fucilieri dello zar avrebbe certamente dato l’ordine di aprire il fuoco.

Effettivamente da quella sera piazza della Scala cessò di essere il ridotto del ridotto, una sorta di showroom per i frequentatori della Prima il cui vanto maggiore era sempre stato che alla Prima ci potevano andare a piedi da casa e che da allora devono sgusciare dentro e fuori alla chetichella. Ma anche l’altra Milano ha diritto di farsi sentire e quel avviene davanti alla Scala non è molto diverso da quel che avviene dovunque nelle grandi città e in tutti i luoghi dove la società appariscente si fa vedere e gli invisibili cercano di apparire anche loro. Forse un poco più di coolness avrebbe evitato di trasformare nell’immaginario collettivo piazza della Scala nel 1905 davanti al Palazzo d’Inverno.

Il confronto con il ’68 comunque non si può fare perché negli anni ’60 c’era una mobilizzazione strutturale fortissima. L’economia tirava e richiamava masse di giovani dalle aree periferiche ai centri del sistema urbano. L’Italia ha avuto in quegli anni tassi di spostamento interno tra i più elevati di tutto il mondo. Contemporaneamente l’allargamento del numero delle imprese e delle loro attività premeva sul mercato del lavoro per avere competenze qualificate e le università sono esplose.

Oggi la situazione è molto diversa, c’è stata una mobilitazione senza futuro. Forse ci siamo dimenticati che, la tanto decantata liberazione dalle ideologie dopo il crollo del Muro di Berlino, è stata salutata a muso duro da uno degli scritti più imbecilli del XX secolo, un vero Monumentum Insaniae Saeculi Viginti, un Saggio, si fa per dire, su la fine della storia. Che propugnava la seguente logica: siamo usciti da un periodo di ideologie cristallizzate, siamo liberi, ergo non accadrà più nulla. Una conseguenza che molti, troppi, non hanno capito è che se la storia è finita, muore l’etica, perché non c’è più la scommessa sul futuro, che è una componente essenziale del fare del bene o del male.

L’hanno però capito banditi, profittatori e criminali politici di ogni risma. Se il passato è da rifiutare (è comunista) e il futuro non c’è, allora siamo liberi di fare quello che vogliamo, non ci sono limiti. In Italia come sempre, ogni ricerca di libertà e di liberazione individuale si traduce in licenza, tutti liberi, tutti a casa. E la conferma della mancanza di futuro sì è tradotta nelle facce sempre più incartapecorite delle classi dominanti. Il futuro si è fermato ieri, basta guardare chi ci governa e compare ogni sera nelle nostre case a sancire l’eternità congelata. È impressionante come, nonostante tutti i soldi, la potenza mediatica le gambe OMSA della Brambilla e i premi vari alle starlette, la famosa rivoluzione liberale del Berlusconismo abbia mancato il bersaglio delle nuove generazioni.

Ma intanto la vita, proprio in senso biologico, va avanti. Alla superficie il mare è calmo o appena increspato dai bercii dei talkshows: ma sotto la superficie lentamente ma con certezza il terreno si muove come in una caldera magmatica. In un mio pezzo del dicembre scorso avevo calcolato che i nuovi elettori erano tra il 10 e il 15% dell’elettorato. Chi è stato capace di intercettare questa dinamica e le esigenze di queste nuove persone (Grillo, gli arancioni di Pisapia, a modo suo, ma con qualche problema di fondo CL, in parte molto piccola il vecchio apparato di militanza Pd e della sinistra) ha incassato sul piano politico. Ma il patrimonio è ancora lì e gli effetti di un ricambio generazionale ancora non si vedono.

A Milano l’EXPO non ha scaldato i cuori, questo è certo: dallo smalto (e anche, occorre riconoscere) una certa originalità dell’idea iniziale della Signora “Smoke Gets in Your Eyes“, si è subito passati ai più sordidi intrighi di potere che si siano mai visti e non vi è stata quella mobilitazione collettiva che sarebbe stata necessaria. Se si farà, forse ci sarà una residua mobilitazione imprenditoriale anche spicciola, ma l’impressione che l’EXPO dà è che il miele sia in mani ben strette.

Le iniziative culturali ci sono, c’è una domanda inevasi di spazi a costi ragionevoli, per abitare, vivere, divertirsi e stare assieme imparando, ma chi avanza questa domanda vuole far parte di ciò che accade, non si accontenta più soltanto di fare il coro greco nei talk shows in cambio di qualche bel primo piano, pagato magari chissà a quale prezzo. Forse cambierà qualcosa, per ora basta sfogliare qualsiasi giornale e guardare le facce (o sentire le parole) di chi sventola la cultura come se ne fosse sua proprietà. La buona borghesia colta milanese si diverte ad autocelebrarsi con giochini a volte garbati, ma spesso del tutto dilettanteschi; durante uno dei migliori di questi jamborees una mia coetanea spiritosa, guardandosi in giro, ha detto “ci sono tutti quelli che non sono ancora morti”.

La mia impressione frequentando queste occasioni, non è quella essere tornato agli anni sessanta, ma un poco prima: ai tempi del liceo; sono cambiati poco i nomi, un po’ più le facce, ma non in meglio, pochissimo i luoghi. Ben venga Macao. Ma perché ci sia una rivitalizzazione culturale della città non bastano le iniziative top down, occorre trovare spazi perché i giovani possano vivere nel centro con i loro figli presenti e futuri, e così facendo forniscano teste, mani e piedi per ringiovanire e riutilizzare la città le sue vie i suoi spazi pubblici. Senza disponibilità di spazi non ci possiamo mettere i giovani

Una proposta per gli spazi. Io credo che di spazi ce ne siano molti, basta cercarli. Mi ha molto colpito un brano dell’intervista di Di Cagno Abbrescia (ex sindaco di Bari) su Il Fatto del 26 giugno p.10. Abbrescia, che ha un notevole patrimonio immobiliare personale dice “Io italiano sono disposto a tagliarmi un braccio, a sacrificarmi per questo paese disgraziato, ma ditemi che succede dopo?” è esattamente quello che penso io, che non sono un grande proprietario, ma ho una casa lasciatami da mia madre, e che avevamo pensato con Giuliano Amato un paio danni fa: facciamo un grosso sforzo, tassiamo il mattone un tanto al metro, ma con il preciso scopo di ridurre il debito pubblico in modo significativo. Tanto se non si fa nulla il valore del tuo mattone verrà tassato lo stesso dal mercato in calo.

Orrore ed eresia, ma pensiamo onestamente a cosa sarebbe successo se allora si fossero raccolti quei 200 miliardi (alcuni economisti seri pensavano a 400 miliardi) quante risorse liberate dal peso di interessi assurdi e da uno spread insopportabile. Magari il piccolo proprietario diciamo di un appartamento da 100.000 euro avrebbe dovuto pagare 3-5 mila euro, certo una cifra enorme, ma oggi in due anni ne ha già persi 20.000 e ne perderà ancora e in più avrà l’IMU. È stato un buon affare?

Tempo fa, un amico che faceva ippica, (per intenderci meglio, galoppo: lavorare il cavallo alle cinque del mattino, in equilibrio sulle staffe, al freddo o nella pioggia, non equitazione che si fa il pomeriggio tutti belli agghindati) mi raccontava della sensazione terribile che talvolta prende il fantino quando pensa di stare perdendo l’equilibrio e si sente scivolare da un lato come paralizzato, con la disperazione raggelante di non riuscire a recuperare lo scatto necessario per rimettersi in equilibrio. Ho spesso questa sensazione di scivolare tutti assieme senza che si possa dare un colpo di reni. Ma penso anche che si possa uscire dal pantano di un sistema in cui gli immobili stanno calando del 20/30% rispetto a cifre che spesso erano solo virtuali con qualche grande piano sociale rimettendo in comune temporaneamente una parte dell’invenduto inoccupato, con convenzioni di uso e manutenzione a 5/6 anni.

L’impero ligrestiano, che ha costellato la città delle più brutte costruzioni della nostra era, ha probabilmente lasciato molte caverne vuote; i quotidiani scrivono delle proprietà sequestrate alla mafia e, proprio in questi giorni, un piccolo Box del Corriere parla delle decine di migliaia di immobili vuoti, invenduti e forse invendibili che la cartolarizzazione fallita dello Scip2 (bisognerebbe mandare in galera chi ha anche avuto lo chutzpah di chiamarlo con il suo nome) ha restituito all’INPS e ad altri enti. Mi domando se il Comune non possa fare un reperimento di tutti questi beni e, con un accordo con i maggiori proprietari (istituti pubblici o banche), darne una quota consistente in comodato d’uso a giovani, soprattutto giovani coppie con figli o intenzionati a farli) per un periodo abbastanza lungo (5/10) anni, in cambio di manutenzione e cura.

Ed egualmente assegnare immobili adatti, ce ne saranno senz’altro, ad associazioni ad hoc in grado di gestire performances, laboratori eccetera. La Fondazione Cariplo ha un programma apposito per insegnare a gruppi di giovani i fondamentali di questo tipo di gestioni (teatro, musica, arti dal vivo che richiedono nozioni specifiche). Ora abbiamo anche un progetto città che mette a disposizione delle risorse, ma il timore espresso quasi universalmente dai primi interventi radiofonici è che si tratti di una nuova spinta alla cementificazione. L’ingegner Guzzetti responsabile dei costruttori ha garantito che si punterà invece alla riqualificazione. Speriamo: le città italiane hanno bisogno di riordino, di ricuciture, di riparazioni di rivitalizzazioni di tutto meno che di nuova cubatura per congelare i miliardi del surplus dell’economia criminale.

Tra l’altro sottraendo al mercato quote consistenti di invenduto e inoccupato e garantendone la sopravvivenza a fini di utilità pubblica per un certo numero di anni, si dimagrirebbe l’offerta dell’invenduto e si farebbero risalire un poco i prezzi in questo settore. Alla fine questi contratti potrebbero essere trasformati in normale locazione, oppure restituiti da quei comodatari che nel frattempo avessero trovato altre sistemazioni, ma che sarebbero stati protetti durante la crisi. Il risultato netto sarebbe anche quello che io ho sempre considerato il pivot strategico di una rivitalizzazione della città, che è quello di riportare popolazione giovani (possibilmente con figli) ora sperduta del periurbano della meta-città, nelle aree centrali del sistema.

Io credo che una classe politica intelligente, e ora c’è, potrebbe facilmente farsi quattro conti con il settore immobiliare e con le istituzioni coinvolte, per impostare un forte programma di intervento nella cultura che abbia gambe strutturali oltre che teste événementielles. Io sono convinto che la politica culturale non possa fermarsi al frufru delle iniziative che durano 24 ore nei titoli di giornale, ma che debba incidere sulle condizioni per favorire e promuovere la creatività diffusa, e, soprattutto, che non si fermi all’autocelebrazione dei soliti noti. Mi spiace di essere così un po’ fuori moda, ma sono vecchio e mi avvalgo del diritto alla testardaggine.

 

Guido Martinotti



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