23 dicembre 2011

LA RIVOLUZIONE SILENZIOSA


Il settimanale “Time” ha designato “il manifestante” persona dell’anno per il 2011. Il manifestante, si legge in copertina, è stato il vero protagonista dell’anno “dalla primavera araba ad Atene, da Occupy Wall Street a Mosca”.(…) Nell’articolo di Kurt Andersen dedicato a “The Protester” si rievoca quando iniziò tutto, il 17 dicembre dell’anno scorso in Tunisia quando Mohamed Bouazizi, dandosi fuoco, diede il via “alle rivoluzioni” e ricorda le parole della madre di Mohamed, Mannoubia: “Mio figlio si è dato fuoco per la dignità”. (dalla Blogosfera).

La politica mondiale, e non solo italiana, sembrava ferma e come congelata tra i granitici ghiacci del pensiero unico che aveva sostituito la cosiddetta “guerra fredda”. Pensandoci a posteriori, la tanto decantata liberazione dalle ideologie dopo il crollo del Muro di Berlino, è stata salutata a muso duro da uno degli scritti più imbecilli del XX, un vero Monumentum Insaniae Saeculi Viginti, un Saggio, si fa per dire, su la fine della storia. Che propugnava la seguente logica: siamo usciti da un periodo di ideologie cristallizzate, siamo liberi, ergo non accadrà più nulla. Una conseguenza che molti, troppi, non hanno capito è che se la storia è finita, muore l’etica, perché non c’è più la scommessa sul futuro che è una componente essenziale del fare del bene o del male.

L’hanno però capito banditi, profittatori e criminali politici di ogni risma. Se il passato è da rifiutare (è comunista) e il futuro non c’è, allora siamo liberi di fare quello che vogliamo, non ci sono limiti. In Italia come sempre, ogni ricerca di libertà e di liberazione individuale si traduce in licenza, tutti liberi, tutti a casa. E la conferma della mancanza di futuro sì è tradotta nelle facce sempre più incartapecorite delle classi dominanti. Il futuro si è fermato ieri, basta guardare chi ci governa e compare ogni sera nelle nostre case a sancire l’eternità congelata.

Ma intanto la vita, proprio in senso biologico, va avanti. Alla superficie il mare è calmo o appena increspato dai bercii dei talkshows: ma sotto la superficie lentamente ma con certezza il terreno si muove come in una caldera magmatica. Tra il 2000 e il 2011 (in base ai dati del Ministero degli Interni) il corpo elettorale italiano è rimasto invariato, anzi è leggermente diminuito dai 49.067.694 elettori del 25 Gennaio 2000 ai 47.118.352 del 16 Giugno 2011. Una perdita di quasi 2 milioni di elettori, ovviamente in gradissima maggioranza tra le classi di età più anziane. Contemporaneamente sono entrati nuovi elettori diciottenni al ritmo di 600mila per ogni elezione, in 10 anni i nuovi elettori, i più vecchi dei quali hanno 28 anni sono complessivamente 5.300.000, anzi qualcosa di più perché io qui ho sommato solo gli anni con elezioni (2004, 2007 e 2008 non li ho contati).

Con questa stima per difetto nel 2011 gli elettori “giovani” sono l’11% dell’elettorato (in realtà probabilmente quasi il 15%) È una cifra che supera gli elettori massimi ottenuti da PSI, Lega o altro raggruppamenti. Il peso di questi elettori non si è fatto sentire fino a quado è emerso con tutto il suo peso nei referendum, nelle elezioni amministrative del 2010 e in generale nei movimenti del 2010-2011, che sono peraltro stati in Italia molto meno significativi (e violenti, il caso di Roma è davvero unico e inquietante) degli altri movimenti dell’area Europa meridionale (USA e UK fanno a parte).

Io credo che parte della ondata che sta cambiando il mondo sia anche dovuta alla novità che le energie giovani sono escluse o marginalizzate dal mercato del lavoro. La differenza tra coloro che sono stati giovani nella seconda metà del XX secolo e chi lo è oggi si può esprimere con due semplici variabili: livello e tasso di variazione del reddito. I giovani di allora erano molto più poveri di quelli di oggi, ma il tasso di variazione (la derivata positiva) era molto elevata per cui le aspettative erano alte e il costo dell’errore basso: il che incentivava l’iniziativa. Oggi le due curve si sono scambiate: il punto di partenza è mediamente più alto, ma il tasso di crescita nullo o negativo. Il costo dell’errore è altissimo e l’incentivazione al rischio bassissima.

Il pensiero unico globale ha causato un enorme ampliamento della diseguaglianza e negli strati bassi sono stati intrappolati milioni di giovani che nella società della conoscenza hanno anche più di un tempo strumenti di quella che una volta si chiamava “presa di coscienza” politica. Si è creata una evidente “inconsistenza o incoerenza di stato” tra le potenzialità del maggiore livello di istruzione e il livello e le aspettative di reddito. Naturalmente i neo-gentiliani, che nel nostro paese sono sempre stati potentissimi (e a volte anche prepotentissimi) tanto che l’espansione democratica dell’istruzione rimane ancora ai livelli più bassi dei paesi OCSE (l’Italia è costantemente in testa al drappello di coda di quattro o cinque paesi, Grecia, Portogallo, Messico, Turchia) hanno subito colto l’occasione per ripetere che ci sono troppi laureati e che questo è pericoloso. Meglio un asino vivo che un professore morto (di fame). Ma è una posizione che, se adottata, creerebbe una vasta fascia di iloti condannati a rimanere nel loro basso livello, molto di più di quanto avviene già oggi, ma soprattutto che deprimerebbe ulteriormente i mercati della conoscenza già molto poveri come dicono Ignazio Visco e la Fondazione Agnelli.

Personalmente, ma non credo di essere il solo (Visco in questo senso è stato sempre molto deciso, e lo cito solo per la sua posizione, ma non è l’unico, ovviamente) penso non abbia senso aspettarsi crescita senza una crescita del capitale umano, culturale e sociale di questo paese. Per questo dobbiamo guardare ai giovani e al loro destino, perché le energie sono lì, ma se non si liberano non ci sarà prospettiva. E a Milano? Non c’è dubbio che i giovani siano stati una componente essenziale del cambiamento. E ora? Certamente sono lì, molto presenti e forse anche appagati (un po’ troppo?). Non so quanto questa forza sia effettivamente integrata nel motore dell’innovazione della città ed è materia di dibattito che spero ArcipelagoMilano possa portare avanti.

 

Guido Martinotti

 



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