8 maggio 2012

GOVERNO MONTI: IL DOPO CHE NON ARRIVA


Sono passati già cinque mesi. Pochi per i bilanci, abbastanza per i primi rilievi. Il governo Monti ha dato quanto chiesto a un esecutivo di tecnici di livello: interventi chirurgici, più prestigio internazionale. Ma non poteva dare un’alternativa non preparata. Così, quando sarebbe dovuto passare dal solito mettere nuove tasse al favorire l’avvio della crescita (attraverso la drastica riduzione delle spese della pubblica amministrazione, l’affidamento delle scelte economiche al rapporto tra imprese e lavoratori nel quadro di ammortizzatori sociali e non di valutazioni dei giudici, il passaggio dalla politica dei sussidi a quella della minor pressione fiscale), allora si è visto che il governo non aveva la bussola delle scelte politiche. Nulla di sorprendente. Lo avevo scritto allora su ArcipelagoMilano. Oggi però è un dato di fatto, confermato dal florilegio di esternazioni della settimana scorsa.

L’animo profondo del governo è ormai quello dei grandi apparati burocratici, disattenti alla convivenza libera di persone in carne e ossa. Il vuoto di progetto politico è stato riempito dai consigli delle strutture ministeriali. Che non concepiscono una dinamica operativa fondata sulle regole aperte; confondono l’interesse della struttura con quello dello Stato e trattano i cittadini come sudditi riottosi, cominciando dal campo fiscale, ritenuto una riserva privilegiata extra costituzionale (tipo metodologie di riscossione della Agenzia delle Entrate). Quindi i consigli al Presidente non potevano che restare estranei al dialogo con i cittadini.

Parlo di consigli non potendo immaginare che comportamenti e dichiarazioni del Presidente Monti, dal 30 aprile in poi, siano pura farina del suo sacco. Qualche cenno. Sdegnarsi perché si reclamano arbitrarie compensazioni tra crediti e debiti con lo Stato, è un paradigma burocratico. Si pretende una dissimetria nei versamenti, tra quelli dello Stato (dilazionati quasi gratis) e quelli del cittadino (immediati a pena di sanzioni gravose); il che è una robusta molla di potere per chi gestisce la cassa. Quanto alle tasse, non le ritiene una liberale conquista del contratto civile per i servizi forniti dallo Stato a tutti bensì un obbligo morale per i cittadini, da adempiere ossequiosi subito, nella misura richiesta e senza discutere; il che è di nuovo una robusta molla di potere per chi esercita l’imposizione. Del resto impone tasse non seguendo criteri di equità (evocata solo a parole) bensì di gettito, per cui le strutture ministeriali sono fantasiose nell’inventare balzelli (ospizi divenuti dimora abituale fiscale degli anziani) e vampiresche nel risucchiare imposte municipali. E infine, dovendo rivedere la spesa pubblica, enfatizza una riduzione di 4,2 miliardi, che autorevoli economisti hanno definito un timido topolino imbarazzante per il governo, pari ad appena lo 0,25 % del PIL.

Non è un caso. Le strutture burocratiche hanno un mantra. I conti si pareggiano mettendo le tasse a rincorrere le spese. A far crescere il prodotto, ci si penserà dopo. Però questo dopo non arriva mai. Invece, è indispensabile farlo arrivare subito. Occorre ritornare al fare politica come discussione di idee e di progetti, non scontro di contenitori riverniciati fuori e immobili dentro. Meglio se l’Europa aiuterà (non col trasferire il debito). Però bisogna dire noi cosa fare, quando e come. Dal punto di vista liberale, per crescere sono necessarie due cose congiunte. Aliquote fiscali più basse e meno spesa corrente del settore pubblico. Vale a dire due cose contro strutture irrigidite, che sguazzano nelle inefficienze passatiste e amicali riducendo il grave malessere sociale a dati statistici. Solo che l’abbassare le aliquote fiscali è impedito dalle pessime condizioni economiche.

Per poterle abbassare, occorre un drastico taglio del debito intorno a un quinto, che liberi per mesi il Paese dall’assillo di rifinanziare le scadenze. Il che significa riconoscere che il debito abnorme (e in aumento) è responsabilità di tutti (anche se non in misura uguale), di chi lo ha fatto e di chi ne ha goduto. E che tutti devono contribuire a ridurlo. Quindi tutti, istituzioni pubbliche in testa, devono contribuire con ogni cespite patrimoniale disponibile (non solo quello immobiliare), tassi crescenti e diversificati vista l’ampiezza della platea coinvolta. Senza toccare redditi ed esigenze base di vita, perché solo l’accantonato si può sacrificare. È essenziale però affidare il ricavato non ai canali burocratici che lo usano per gli affari correnti. Il ricavato va affidato alla gestione di un Comitato nominato da Napolitano, che non mischi la riduzione del debito con le spese abituali, sfuggendo ancora il ridurle. Contestualmente al drastico taglio, si abbassano le aliquote fiscali per innescare la crescita produttiva (che migliora le condizioni di vita dei più deboli). Insomma, una politica tutta differente da quella pauperistica dell’invidia sociale che, volendo far pagare solo ai ricchi colpe che non sono solo loro, impoverisce tutti. O da quella del vacuo moderatismo che, volendo portare al governo i bolsi benpensanti come tali, celebra il conformismo dell’antipolitica tecnica. O quella dei conservatori dissimulati, che, gabellando il liberalismo keynesiano per dirigismo, ostacolano il continuo evolversi produttivo.

La rigenerazione della politica richiede questi confronti. Naturalmente, un simile bagno liberale di realismo nell’analisi e di concretezza nel progetto, non riguarda solo l’ordine del giorno nazionale. Vi sono anche occasioni straordinarie, come l’Expo 2015, che esigono analogo atteggiamento. Nel caso, una valutazione tempestiva dello stato dell’arte di infrastrutture di rilievo. A tre anni dall’inizio e in mezzo a una crisi battente, Milano non può permettersi di sbagliare i tempi preparatori di questo evento propulsivo. A chi avanza l’ipotesi di una dilazione, così come per l’Expo dei primi ‘900, non può essere data una risposta frettolosa da un malriposto spirito di grandezza. Anche qui lo spirito migliore è stare ai fatti per realizzare davvero il nuovo.

 

Raffaello Morelli

 



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