13 dicembre 2011

GOVERNO MONTI: CONFORMISMO ILLIBERALE


Nel n.41 di ArcipelagoMilano, un entusiasmo neofita ha sciolto inni alla rivoluzione liberale di Monti. È il sogno della sinistra che prima non ha preparato un progetto alternativo al berlusconismo e ora chiude gli occhi su quello che è il governo Monti. Di certo non è una rivoluzione liberale. Come nei governi preceden-ti, le scelte politiche liberali sono pressoché assenti nel governo Monti. Non perché si siano traditi i cittadini, dato che il parlamento ha votato il Governo. Perché non si vede traccia di scelte politiche liberali nella procedura con cui si è formato (un soprassalto di realismo tecnico voluto da Napolitano per supplire all’irresponsabile incapacità di maggioranza e minoranze 2008 di pensare progetti di governo e di collaborare per togliere il paese dai ritardi strutturali non nascondibili ai mercati globalizzati; in pratica, i tecnici sono lo strumento per sopire le risse dell’antipolitica).

Non si vede traccia di scelte politiche liberali nel criterio selettivo della compagine ministeriale, che è stato sì quello del rilevante prestigio personale ma non quello dei pubblici intendimenti politici sull’organizzare la convivenza. Non ve ne è stata traccia nel discorso programmatico, di molto buon senso apprezzabile solo perché merce rara. Fino alla manovra, la sola novità del nuovo Presidente del Consiglio è stato cambiare il clima politico e il tono del dibattito per il risanamento. Molto importante ma non sufficiente, visto che la politica è affrontare il conflitto democratico sui problemi reali.

Poi la manovra ha marcato la lontananza dalla rivoluzione liberale. Prima l’episodio del Presidente del Consiglio che d’istinto voleva presentare le decisioni del governo agli italiani in TV prima di presentarle in Parlamento (l’essersi corretto, non restituisce l’istinto del parlamentarismo liberale). E infine il decreto Salva Italia. Un nome indicativo dell’idea del governo: fare credere che si può salvare l’Italia solo con i sacrifici di questa manovra. Non è affatto vero. È una manovra di tipo tradizionale fatta di molte tasse, di limitati tagli alle spese, di poche parole sullo sviluppo e di quasi niente per attivarlo. Una manovra con lo sguardo al riassetto del bilancio annuale, che grava soprattutto sui soliti (cespiti immobiliari, pensionati, consumatori) e che non investe il problema del debito accumulato. Il solo intervento strutturale per diritti uguali e sostenibili, è nel settore pensioni, cioè eliminazione della pensione di anzianità e calcolo con il metodo contributivo (il che rende urgenti interventi sul lavoro e sugli ammortizzatori sociali). E anche i corretti atti emblematici, come la rinuncia del Governo al cumulo delle retribuzioni a carico dello Stato, come il dimagrire delle Province salvo la Costituzione oppure come il resistere alla restrizione del contante a duecento euro chiesta dagli statalisti per legare il cittadino.

Questa manovra tamponerà la crisi del momento senza affrontare i problemi strutturali. Manca il disegno politico. Non c’è rivoluzione liberale se non si affrontano i problemi di struttura. A cominciare dal drastico taglio del debito, per non trovarsi presto daccapo. Non è casuale la disattenzione al problema del debito. Dipende dalla dissennata mentalità pauperistica che ne è stata l’origine, snobbando il produrre reddito e trascurando sviluppo e liberalizzazioni. Immerso in questo clima, il governo ha tagliato poco le spese, fatto quasi niente per lo sviluppo e insistito per coprire il bilancio annuale con più imposte indirette in tanti rivoli (dagli effetti economici recessivi). Conservare uno statalismo debordante, è il nido del pauperismo assistenziale.

Per tagliare il debito accumulato, ci sarebbe voluta una robusta patrimoniale pagata in proporzione da tutti i cittadini (dico tutti, anche perché tutti sono più o meno responsabili) e cedendo beni pubblici superflui, magari gestita con la certezza che il ricavato pagasse solo i titoli in scadenza. Una simile patrimoniale, facendo risparmiare una massa di interessi sul debito e l’esporsi per mesi al giudizio di aste di rinnovo, avrebbe tolto alla mentalità burocratica la scusa per opporsi ai tagli di spese (mirati non proporzionali) e all’abbassare numero e livello delle aliquote fiscali. Provvedimenti catalizzatori di sviluppo e mercati, quindi in grado di ridurre lo statalismo inefficiente e inutile.

Ecco perché il governo Monti è stato indotto ai comportamenti tradizionali, praticando il pauperismo dei concetti e togliendo l’indicizzazione ai pensionati più deboli, elevando le già alte accise su benzina, aumentando i bolli e le addizionali regionali, imponendo balzelli (incostituzionali) ai patrimoni scudati, in più ignorando un’indagine di Mannheimer: quattro quinti degli italiani favorevole a una patrimoniale pur di ridurre il debito.

In realtà, il Presidente del Consiglio Monti, dietro parole forbite, ritiene la politica un gioco di potere in cui l’importante è l’essere un notabile rispettato, non le idee strategiche per agire. Se lo slogan da lui pronunciato in TV da Vespa – il mercato non va né demonizzato né divinizzato – corrispondesse alla sua volontà politica, non sarebbe stato così timido e avrebbe ridotte le tasse puntando con decisione sullo sviluppo. Così non è stato e neppure sarà, perché il governo Monti non è la rivoluzione liberale.

Anzi, aleggia un nuovo disegno conformistico illiberale. Avvalorare l’idea che il sistema del governo Monti sia la prospettiva giusta per il paese. Casini lo ha espresso auspicando che Alfano e Bersani restino insieme dopo le prossime politiche e in Parlamento ha sollecitato un patto di consultazione tra chi sostiene il governo. Nostalgia della democrazia consociativa? Ma la democrazia è alternativa di progetti politici. Con la maggioranza degli opposti, si accetta la politica di solo potere e si soffoca la politica della sovranità del cittadino nello scegliere il futuro della convivenza. Questo è il vero contrario dell’equità.

 

Raffaello Morelli

 



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