1 maggio 2012

I RADICALI I CONCORSI E BONESSA


Caro Collega, in effetti c’è molto fumo in giro. Fumo che ci impedisce di vedere chiaramente quello che succede nella nostra città e che noi, con le nostre proposte per il governo di Milano, vogliamo provare a diradare. Si dice che il vento è cambiato. Noi puntiamo ad alimentarlo. Con i concorsi di architettura? Anche ma non solo. Partiamo ovviamente da questi.

Lei prende ad esempio episodi urbani che sono la testimonianza di ciò che a Milano non si deve più fare: CityLife, è noto, è stato uno pseudo concorso, che insieme a una offerta di compensazione economica, non poteva prescindere dal coinvolgimento corale di archistar e loro supporter locali a uso e consumo dei media e di tanto, tanto… suolo. Il risultato, in costruzione, insieme ai tre tragicomici grattacieli in divenire, sono la dimostrazione della povertà e del provincialismo della nostra classe dirigente. Altre vicende raccontano di una magia sociale dove le cose valgono non per quello che sono ma per la presunta autorevolezza di chi le promuove e le progetta.

Solo così si possono prendere sul serio stropicciati palancongressi come quello in Fiera Milano City o strampalati lunapark texani come quello scelto da una sconosciuta giuria privata da ENI per il suo nuovo centro direzionale San Donato. Quelli che lei cita, caro collega, sono furbi concorsi a inviti o incarichi diretti, enfatizzati da una stampa quantomeno ingenua e inconsapevole che legittima le più inutili operazioni di finanza immobiliare. Quello che lei racconta sono proprio i fatti contro cui indirizziamo la nostra proposta politica.

«Oggi l’architettura è riuscita a farsi accreditare come “arte”, come “arte pura”. Il che per i suoi epigoni vuol dire: senza limiti, né regole, né storia. Oggi gli architetti sono diventati intercambiabili con i sarti, in tutti i sensi, entrambi abilitati “artisti”. Un architetto può oggi affermare che quel suo edificio ha la forma che ha perché ispirato a un pezzo di formaggio, a una nuvola o a chissà che. Mentre altri, stessa faccia tosta ma meno fantasia, approfittano di parole d’ordine come “ecologismo” per progettare “boschi verticali” e mulini a vento sul tetto di grattacieli che in realtà si spiegano solo come strumenti della speculazione edilizia. Gli architetti sono da sempre personaggi disinvolti, ma adesso penso stiano esagerando: in Spagna in questi casi si usa il termine sin-verguenza». Diceva qualche hanno fa Giorgio Grassi in una intervista a un quotidiano milanese.

Bene, veniamo alla nostra proposta: noi proponiamo concorsi, facoltativi, rigorosamente aperti, a una o più fasi, con un responsabile del concorso che definisce oggetto, bando e giuria; che chiede un documento unico di proposta, dove il costo principale è quello intellettuale e non, come spesso avviene nei bandi che vediamo tutti i giorni su Europaconcorsi, la richiesta di un numero esorbitante di elaborati, magari inutili richieste di “prime indicazioni sulla sicurezza” all’interno di una delle tre tavole A0 con un montepremi complessivo, se va bene, di 4.000 euro, dove partecipano 200 studi per la riqualificazione di una piazzetta di paese che, probabilmente, non vedrà mai l’inizio lavori.

Noi parliamo di giurie dove la componente di giurati scelti dall’ordine e segretati sino alla ultima seduta di valutazione siano in grado di confrontarsi e dialogare riccamente con quelli preferiti e voluti dal committente. Committente, che, in caso di parità, avrà sì l’ultima parola, ma non sarà mai così stupido da investire denaro nel progetto del suo amico anziché in quello straordinario che ha individuato tra gli esaminati. Quello con . . . . motto: “w-i-concorsi”. In questo senso esprimiamo quindi la nostra preferenza per i concorsi a più fasi, dove lo sforzo di partecipazione senza rimborso è concettuale e, quindi, accessibile a molti. È per questo che chiediamo fidejussioni a garanzia del montepremi (mai inferiore all’uno per cento del costo di intervento), certificati di regolare svolgimento emesso dalla quota pubblica della giuria, pubblicità obbligatoria del bando sui siti soliti oltre che a quelli dell’ordine e del comune.

Noi parliamo d’altro. Noi parliamo di offrire a molti la possibilità di fare proposte d’architettura, di essere giudicati su queste e non su curriculum e/o fatturati. In sostanza vogliamo restituire al progetto il primato che ha perso a favore del progettista e delle sue capacità di relazioni sociali. Capacità di relazione che sono importanti e legittime ma che vanno misurate in confronto ad altre opinioni e ad altri approcci, che solo i concorsi possono permettere, a un costo contenuto.

In Europa si fanno concorsi molto interessanti con una richiesta limitata di elaborati. Poca forma e molta sostanza, molta materia, direbbero altri. Ho partecipato ad alcuni. L’ampliamento della biblioteca di Asplund, il museo del Bauhaus di Weimar, via Cenni a Milano. Non ho vinto come ovvio. Sono state comunque straordinarie occasioni di formazione professionale. Giudicare il progetto del vincitore, ad esempio, essendosi misurati con lo stesso tema è cosa ben diversa da un banale “mi piace questo, che schifo quello”.

Il concorso è e sarà certamente un momento di crescita anche per la committenza, che nel mio paese, non si risenta nessuno, ha un grande bisogno di maturare. Ci scommetterei, a Zurigo il grattacielo di Liebeskind, non lo costruirebbero. Mai. E sono anche certo che a Zurigo lo stesso Liebeskind sarebbe stato meno disinvolto.

Per anni si è tentato di migliorare la qualità urbana attraverso la cosiddetta partecipazione. Che cosa è il concorso se non una straordinaria forma di partecipazione? Uno straordinario fatto collettivo, corale, serio e rispettoso della gestione delle competenze (ovvero chi decide che cosa). Troppo spesso, in questi anni la partecipazione è stata un cerimoniale della politica, uno strumento di legittimazione di scelte preconfezionate veicolate da questo e quell’urbanista. Molto più interessante e responsabilizzante sarebbe chiamare i cittadini a scegliere tra le diverse proposte che solo il concorso di architettura può regalare alla città. Una sorta di referendum per sottoporre al giudizio dei cittadini le diverse opzioni architettoniche.

Noi non nascondiamo che una procedura come quella da noi proposta contiene delle criticità. Ne cito alcune: qualità della giuria, inefficienza delle giustizia in caso di contestazioni, disponibilità al compromesso di una categoria, la nostra, praticamente alla fame. Il punto è che oggi possiamo partire solo da qui e comunque non abbiamo nulla da perdere. La nostra città sono brutte, frantumate e quindi costose in termini energetici e trasportistici. Si costruisce massicciamente solo sui greenfields, sugli spazi vuoti.

Troppo premialità lei dice, forse ha ragione, ma la risposta è una riduzione ulteriore dell’indice unico di partenza, non manomettere gli strumenti in favore della qualità urbana. Oggi credo che lo sforzo fatto dalla nuova giunta sia riconoscibile. Domani, quando i valori delle aree scenderanno, e scenderanno, si potrà fare edilizia di qualità a basso prezzo, scelta tra tante proposte di concorso magari partendo da un indice di base di 0,25.

Noi parliamo di una città che deve ripensarsi, ri-costruirsi su se stessa, smettere di consumare suolo. Costruire sul costruito è costoso e difficile. Richiede invenzione e confronto. Il Concorso è il mezzo che, nonostante tutto, può regalare qualità a Milano e al nostro paese tutto. Ma noi radicali siamo anche molto liberali. Permettiamo, addirittura ai privati, anche di non fare i concorsi, ovviamente rinunciando alle premialità. Permettiamo, ad esempio, di ripetere quello che fatto un imprenditore emergente recentemente a Milano: di realizzare un edificio alla fine di via Torino verso il Duomo, come meglio ha creduto. Lui ha scelto “un edificio che respira”, come le scarpe che produce e vende. Viva i concorsi.

 

Francesco Spadaro*

 

*architetto, radicale

 

 



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