17 aprile 2012

CONCORSI PER TUTTO E PER TUTTI: IL FUMO FA MALE


Nonostante quello che sostengono i Radicali, il fumo fa male. Fa male fumare il tabacco, probabilmente non fanno benissimo le canne, ma fa soprattutto male il fumo negli occhi. Li fa bruciare e non ci permette di vedere con chiarezza dove stiamo andando a sbattere la testa. Se poi si è giovani architetti il rischio è esponenzialmente moltiplicato. Ma i Radicali, di cui apprezzo e ho apprezzato moltissime battaglie, in un incontro di pochi giorni fa all’Urban Center, di fumo, ne hanno sparso a piene mani, proponendo per migliorare la qualità architettonica dell’edilizia milanese ed eliminare la frustrazione dei giovani progettisti, di inserire nel nuovo regolamento edilizio una norma che, regalando metri cubi, incentiva i privati a indire Concorsi di Progettazione.

In questo modo, secondo i nipoti di Pannella, si otterrà una migliore qualità progettuale e si aprirà il mercato alle giovani generazioni. Ma purtroppo non è così, sarebbe bello, molto bello ma non è questa la ricetta. Purtroppo i concorsi non rappresentato né una garanzia di qualità, né uno strumento di accesso dei più giovani al mondo della professione. Se con qualità intendiamo quella che desidererebbero i cittadini e non quella di cui si parlano addosso gli architetti, i concorsi non potranno mai garantirla. Vogliamo parlare di City Life, di Palazzo Lombardia, o di Cascina Merlata per fare solo alcuni esempi di interventi che la cittadinanza ha criticato, se non osteggiato, e che, obiettivamente, qualche problemino architettonico lo presentano?

La qualità di un progetto non la garantisce assolutamente un concorso, che al massimo può permettere di raggiungere quella formale e compositiva utile agli architetti per parlarsi addosso. La qualità sociale di un progetto, quella che comprendono i cittadini, si raggiunge solo attraverso la condivisione delle scelte e il lavoro di progettazione partecipata, non si può risolvere con un atto individuale e, per sua natura, segreto fino alla sua presentazione.

Si dice che sarebbe una norma per migliorare le possibilità progettuali e lavorative delle nuove generazioni, ma questa è una “credenza popolare” che generazioni di professionisti affermati hanno cavalcato per difendere i loro privilegi, rendendosi disponibili a competizioni che sapevano di vincere. I concorsi costano. Costano molto. Se li possono permettere i grandi studi o i piccoli studi dei giovani rampolli (architetti) della ricca borghesia che il lavoro lo trovano comunque. Se mai un “giovane laureato senza disponibilità economiche e santi in paradiso” ha mai vinto un concorso è stato un caso isolato a fronte del lavoro gratuito di centinaia di architetti che non hanno mai vinto niente.

E in un certo senso è giusto che sia così. Quello che non è giusto è continuare a illudere chi non ha mezzi, esperienza, possibilità economiche, struttura e organizzazione che bastino creatività e buona volontà per bruciare le tappe. I concorsi richiedono una mole di lavoro e di energie che si potrebbero indirizzare molto meglio, non lavorando gratis per partecipare a gare che probabilmente non si vinceranno mai. Si tratta di un dispendio di energie mentali e produttive che non è presente in nessun altro settore di attività né professionale né imprenditoriale.

Ma qualcuno vuole trasferire questo sistema di sfruttamento anche al settore privato, senza la giustificazione della trasparenza che in qualche modo lo rende accettabile nell’emisfero pubblico. Vogliamo dare lavoro e possibilità progettuali ai giovani progettisti? Pubblicizziamo e incentiviamo gli elenchi dei professionisti per gli incarichi sotto i 100.000 euro o piuttosto chiediamo agli architetti di progettare anche gratuitamente per la città, sicuri che il loro lavoro non finirà in un cassetto ma aumenterà il loro curriculum e la loro esperienza. Sfruttare gratis decine o centinaia di studi non genera lavoro, ma povertà, depressione e frustrazione.

E spieghiamo a chi si incammina nel percorso della progettazione che si tratta di un cammino lungo, da intraprendere con passo calmo, deciso e determinato, senza sperare nello strappo, o scorciatoia, che ci porti direttamente alla meta. Spieghiamogli, se vogliamo veramente aiutarli, che per “fare l’architetto” non bastano talento, creatività, e le notti passate in bianco a finire i rendering. Si tratta di un mestiere per cui queste qualità sono necessarie ma non sufficienti. Quello che serve è l’organizzazione, la specializzazione, la pratica quotidiana e l’esperienza che non si acquistano in un giorno. Serve imparare a lavorare in gruppo, dividendosi i compiti, non pensando di essere gli unici artisti in grado di risolvere tutti i problemi con un gesto creativo.

Il futuro è nei grandi studi dove ognuno farà il suo, contento e realizzato nel sapere di partecipare alla ideazione di qualcosa che da solo non sarebbe riuscito a portare a termine. Il tempo dell’Architetto che progetta “dal cucchiaio alla città” è ormai andato. Perché le città e i cucchiai richiedono conoscenze e specializzazioni che nessun singolo, nessuna piccola struttura, è in grado di gestire e modellare.

Ma i Radicali, e purtroppo molti altri, pensano che sia una norma trasparente ed egualitaria che permetterà ai migliori, chiaramente sconosciuti e incompresi, di emergere, nonostante le lobby, le p.r., le conoscenze e i santi in paradiso. Ma chi nominerà i partecipanti, chi terrà le fila di questa procedura? Sappiamo tutti come finirebbe la cosa, vero? Io so che gli imprenditori, forti dei diritti volumetrici in regalo, chiameranno a partecipare gruppi di studi conosciuti che si divideranno le torte. E chi giudicherà i progetti? La cittadinanza? La Commissione Edilizia? Il Comune? Ma quanti metri cubi dovremo regalare per convincere un privato a subire un altro esame, che si aggiunge a quelli già esistenti, che aumenterà ulteriormente i tempi di progettazione e realizzazione di un intervento facendo lievitare di conseguenza i costi?

E su chi si scaricheranno questi costi? Andranno sempre a finire nel famoso metro quadro che ormai nessuno può più permettersi e che gli imprenditori non riescono più a vendere? È una norma sostenibile? Ma come possiamo, dopo aver ridotto gli indici, continuare a utilizzare il territorio, i metri cubi, lo spazio, come l’unica merce di scambio del Comune per ottenere qualità in edilizia?

Come si può chiedere risparmio energetico e pagarlo con maggiori consumi di suolo, come possiamo chiedere più spazi verdi, qualità architettonica, leggerezza volumetrica e pagarla in volumi che ne sono l’antitesi naturale? Di questo passo, tra incentivi energetici, edilizia convenzionata, progetti a concorso, pur partendo dallo 0,35 ipotizzato nel nuovo PGT della Giunta Pisapia rischiamo di raggiungere indici che Masseroli si sarebbe sognato.

E poi con che logica si propone una norma da inserire nel regolamento edilizio, che, come dice la parola stessa deve regolare, non determinare, scelte per cui ci sono altri strumenti a cui non si deve in nessun modo sovrapporre? Una norma che interessa aspetti volumetrici, andando a sconfinare dritta dritta nel PGT. Dovremmo avere un regolamento edilizio snello, semplice e privo di trabocchetti interpretativi ed ecco che ci inseriamo un nuovo articoletto che farà la gioia degli equilibristi del metro cubo, sempre alla ricerca di interpretazioni utili ad aumentare le superfici commercializzabili.

Dopo le serre, gli spazi condominiali, le palestre, i volumi tecnici che non vengono burocraticamente considerati volume (ma che esistono e proliferano), ecco un altro bel regalino: Il concorso fai da te.

 

Andrea Bonessa

 



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