20 marzo 2012

TAV, NO TAV E UNA STORIA AMERICANA CHE INSEGNA QUALCOSA


L’aspetto che più mi irrita in questa disputa sulla TAV/NO TAV in Val di Susa è l’estrema semplificazione ideologica delle argomentazioni, dall’una e dall’altra parte. Il discorso s’imbarbarisce e si chiude in una ripetitività di affermazioni che non aggiungono nulla neppure alla propria linea. Sentire il governatore Niki Vendola descrivere la TAV come “buco nella montagna” significa sentire qualcuno che vuol parlare solo a se stesso, perché chi non è già più che convinto dopo un’affermazione del genere chiuderà l’audio. Dire come fa Guido Viale che è in atto uno scontro di civiltà, significa assegnare il ruolo di portatore di civiltà alla società ferroviaria (un po’ di logica! Almeno limitiamoci a parlare di visioni del mondo.)

Ci pensano già i sostenitori della TAV che presentano, loro sì, la TAV come portatrice di civiltà, e gli oppositori come barbari neo-romantici. Si sprecano paroloni che confondono invece di chiarire: la Civiltà, lo Stato, la Nazione (tutte belle entità che prescindono dalle responsabilità storiche e politiche della situazione e distolgono l’attenzione dall’analisi storica e politica, l’unica che permette di capire cosa succede e di lavorare per una soluzione). Ho già scritto settimana scorsa che il problema non è in val di Susa, ma è a Roma o anche, se vogliamo, a Milano: il problema è che dopo anni di assoluta impunità l’apparato tecnico-amministrativo preposto alle grandi opere pubbliche (e anche alle piccole) è corrotto al punto che il pubblico non si fida più delle assicurazioni di tecnici ed esperti, perché tutti sanno, o sospettano, che dietro a ogni iniziativa ci siano guadagni illeciti o ingiustificati e il più totale disprezzo per l’ambiente e le comunità locali. Lo scontro tra diverse visioni del mondo si fa lì, e per quanto difficile possa essere, la costruzione della nazione comincia dalla generalizzazione degli obblighi di contribuire, non dallo sventolio di bandiere. Si va dallo scontrino in su, non dai paroloni in giù.

La nazione, dice Galli della Loggia (Corriere del 12 Marzo) è esile: sfido, come si fa a stare tutti sulla stessa barca se alcuni remano e gli altri si sbafano le provviste? La Nazione non c’entra: c’entra una classe dirigente che da almeno vent’anni saccheggia a man bassa le casse del paese lasciando un’impronta di devastazioni sul territorio, con la connivenza di buona parte dell’opposizione e la distratta benevolenza dei “terzini” troppo occupati a bastonare una sinistra che non c’è più. L’arretratezza della nostra economia non può essere imputata solo ai “neoromantici”, (che contribuiscono non poco a confondere le idee) ma ai potenti che con le loro devastazioni forniscono ai “neoromantici” carburante per le più spinte farneticazioni, perché molte di queste trovano poi riscontri nella realtà. In questo clima veramente torbido non c’è da stupirsi che prosperino le mafie di ogni genere e in ogni dove; e non illudiamoci che le mafie si mettano in moto solo quando c’è da fare gli appalti: è assolutamente evidente che si muovono innanzitutto per creare le condizioni perché poi gli appalti si facciano.

L’altra fonte d’irritazione è la continua insistenza su una distinzione che sempre più si rivela astratta e fuorviante tra il mondo della politica, che sarebbe dominato dall’arbitrio e dall’approssimazione e il mondo della tecnica che sarebbe invece dominato dalla razionalità e l’esattezza. Ma le grandi imprese tecniche sono eminentemente politiche, non solo nel senso ovvio che ciascuna di esse è alternativa ad altre opere e che queste scelte sono inevitabilmente e genuinamente “politiche”, ma nel senso che lo sono anche in un certo senso, geneticamente. Perché sono dei “macrosistemi”, come ricorda il sociologo francese Alain Gras, cioè insiemi complessi di aspetti tecnici, ma anche economici e culturali. Un buon esempio è la diffusione dell’elettricità che richiede un complesso macrosistema che parte dalle dighe e arriva alle lampadine. Si veda, come buon esempio letterario, la splendida ricostruzione dell’epoca vittoriana riportata da Victoria Glendinning, in Electricity (Arrow, Londra 1996).

È inutile ricordare l’importanza culturale e anche ideologica delle ferrovie, dalla corsa tra il cavallo e la macchina, alla conquista del West, al Ballo Excelsior, al blindato di Trotskij il treno, ha sempre proiettato un’immagine di sé al tempo stesso affascinante e minacciosa: le metafore per il “drago di fuoco” si sprecano a decine. Questo elemento culturale non è un accessorio dello sviluppo tecnologico, ne è una componente essenziale: le ferrovie, come ogni altro grande “macrosistema” sono investimenti di grande portata e questi investimenti non si riescono a fare se non si possono basare su un largo consenso. Non voglio augurare male a nessuno e non sono particolarmente portato alla Schadenfreude, del resto non sarò lì a vedere la fine di questa storia, ma forse qualche grande avventura ferroviaria del passato sarebbe utile ricordarla.

 

Le Florida Keys sono un arcipelago di 170 piccole o piccolissime isole piatte (keys o cays) che si stendono dalla punta sudest della Florida fino alla maggiore isola che chiude l’arco e che si chiama Key West, e che si protende come un indice arcuato a invito verso Cuba, finendo esattamente all’altezza dell’Havana da cui dista 169 km, 91 miglia nautiche, una distanza inferiore a quella tra Key West e Miami. È un’area dei Caraibi che ha una lunga e complicata storia di conquiste, riconquiste e passaggi, perfettamente adatta al contrabbando, alla pirateria e a ogni altra intrapresa in cui è utile avere a portata di mano un labirinto di acque infide e di passaggi noti solo a pochi esperti. Paesaggio splendido, ma non troppo raccomandabile, neppure dal punto di vista balneare se si vogliono evitare le temibili meduse filamentose Man o’ War, i cui tentacoli possono essere mortali e comunque dolorosissimi anche se secchi sulla spiaggia.

La vicinanza con Cuba fa del porto di Key West un ottimo punto d’approdo per le merci dei Caraibi, ma poi, da Key West, per raggiungere il mercato americano occorre percorrere un tragitto di altre 100 e più miglia nautiche, in pratica una giornata di navigazione, fino a Miami. Uno strano e straordinario esemplare di tycoon Henry Morrison Flagler che di fatto inventò la Florida qual è oggi decise a un certo punto di “collegare” Miami (città praticamente da lui stesso fondata ex novo) con Key West allora un popoloso centro portuale, con una ferrovia. Dobbiamo immaginarci queste isole sperdute nel mare allo stato naturale, alcune quasi sommerse, altre separate da un braccio di mare profondo, o lungo parecchie miglia, tutte esposte a ogni forma di intemperie, senz’acqua o riparo.

Quando Flagler esponeva quella che veniva chiamata “Flagler folly” spiegava tranquillo come pensava di arrivare a Key West: “é semplicissimo. Costruite un arco di cemento, e poi un altro e ben presto vi troverete a Key West. Ci volevano milioni, ma Flagler li aveva perché ne aveva fatti talmente tanti con David Rockefeller e la Standard Oil che non avrebbe potuto spenderli in tutta la vita nonostante le molte ville e le tre mogli. Così nel 1904 si butta nell’impresa e il 22 gennaio 1912, ormai vecchio e mezzo cieco, compie il viaggio inaugurale a bordo della sua carrozza personale, Rambler, con ghiaccio e champagne e arriva a Key West con il primo treno. La storia di Flagler (verso la cui seconda moglie Elizabeth Harkness, ho un debito postumo di gratitudine perché la fondazione della sua famiglia mi ha pagato due anni di studi e viaggi negli Stati Uniti) è troppo straordinaria perché possa anche solo azzardarmi a sintetizzarla qui.

La storia dell’epica costruzione che durò otto anni e che incontrò anche l’opposizione dei pochi abitanti delle isole che temevano, come poi di fatto avvenne, un disastro, è altrettanto interessante. Rinvio a Pat Paris, The Railroad that Died at Sea, Langley Press, Key West 1968 e ai vari siti, tutti molti ricchi, su Google, da uno dei quali traggo il racconto della conclusione. “Alla metà del 1935, circa cinquanta milioni di passeggeri avevano già percorso il viaggio di 156 miglia attraverso le Florida Keys. Il 2 settembre 1935, Labor Day, con un forte uragano diretto verso le Keys, una locomotiva e alcuni vagoni vennero assemblati per una gara contro il tempo. A Homestead, il macchinista decise di spostare la locomotiva verso la parte posteriore del treno per una via di fuga più veloce dai flutti. Le onde si stavano già rovesciando sui binari mentre il treno si avvicinava a Islamorada. Appena il treno si fermò, le famiglie cominciarono l’imbarco. La fermata a Homestead, tuttavia, si rivelò fatale. In pochi minuti, all’altezza dell’isolotto di Matecumbe (qualcosa che ha a che vedere con lo spagnolo “matar”) un aumento del mare di oltre 17 piedi travolse il treno e le poche case, spazzandone via la maggior parte verso il mare. Nei giorni a seguire, più di cinquecento corpi sono stati trovati. Nessuno saprà mai il numero esatto di vittime in quel giorno. Dopo ventitré anni di servizio, le Ferrovie Henry Flagler sono morte in mare durante il grande uragano del 1935.”.

E questa è la versione ufficiale: un’impresa titanica costata circa 50 milioni di dollari di allora, di tasca del tycoon che, questa è la voce, nella sua eredità di 100 milioni aveva anche messo da parte. Ma l’ironia della sorte volle che anche prima dell’uragano, la ferrovia era riuscita sì a “connettere” Key West con la terraferma, ma non riuscì mai a trasformare Key West nel grande porto che Flagler aveva sognato, al contrario la ferrovia favorì, oltre a un intenso turismo ludico (e alcolico) che permetteva di andare con pochi soldi fino a Cuba e ritornare con la valigia piena di rhum, anche una massiccia migrazione verso la terraferma. Anche questo uno sgarbo postumo al povero Flagler che era, come molti tycoons americani un puritano e un rigoroso teetotaler.

La ferrovia “che finiva nel mare” si trasformò in “ferrovia che morì nel mare” e fu sostituita in seguito da una splendida autostrada: la numero 1 del sistema autostradale americano interstate (http://www.us-highways.com/) che fa da controparte alla 101 che va da Olympia (nello stato di Washington) a Los Angeles. Chi volesse farsi una gita americana veramente emozionante può prendere un’auto a Miami e dirigersi a Sud Est attraverso le Everglades per poi saltabeccare cha isola a isola costeggiando a tratti i ruderi di una sorta di strano acquedotto romano, “arco dopo arco” da cui ogni giorno pencolano decine di canne da pesca in attesa dei bei pesci, e di qualche occasionale pescecane, che si vedono brulicare nell’acqua sottostante. Oggi Key West rimane solo una cittadina ex – coloniale abbastanza carina, nonostante la folla di turisti del rhum che vengono a sbronzarsi in onore di Hemingway. Del quale rimangono la casa (ore di coda) e, dicono, i gatti con sette dita, o meglio i loro discendenti, una cinquantina di polydactil.

L’altra popolazione animale che popola significativamente Key West sono le centinaia e forse migliaia di lussureggianti galli rosso-bruno di taglia XL che con le loro famiglie sciamano liberamente dovunque, solo ogni tanto pigramente scacciati (sciò sciò) da qualche abitante infastidito dalle raspate nel proprio giardinetto di casa. Sono gli eredi dei galli da combattimento portati lì dai bucanieri caraibici per le lotte tra galli e appartengono a quella razza che durante la guerra chiamavamo Rodisland (Rhode Island) e che mia zia Gin era diventata bravissima a operare con forbici e ago da sarta sul tavolo da cucina, per liberarli dai calcoli nello stomaco che affliggono quella specie di pennuti. Mai nessuno era rimasto sotto (quei) ferri, ma certo nessuno è poi morto di vecchiaia.

Forse tra un barilotto di rhum, i gatti di Hemingway e i pollacchioni, che oggi devono essere stati rimpatriati (ai tempi della “aviaria” li avevano deportati fuori città con grande scandalo degli animalisti e dei locali) si troverà il tempo di andare a visitare il monumento dedicato dalla Contea di Monroe ai caduti della Flagler Eastern Extension (Florida East Coast Key West Extension) e di meditare su una delle più grandi saghe della storia delle ferrovie.

 

Guido Martinotti

 



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