6 marzo 2012

AREA ENEL E NO TAV: L’INTERESSE GENERALE


Contrariamente alla maggior parte dei partecipanti al dibattito su questa spinosa questione, che divide così nettamente e a tratti violentemente l’opinione italiana, confesso di avere in proposito più dubbi che certezze. E pur essendo, in generale, non molto favorevole al localismo e al comunitarismo spicciolo da orto di casa, che domina in gran parte del pensiero sedicente di sinistra nel nostro paese, mi insospettisco molto tutte le volte che sento un inno coerente agli interessi universali (progresso, modernizzazione, nazione, socialismo, collettivizzazione etc.) contro gruppi piccoli e riottosi.

Mi pare che venga dato come principio incontestabile proprio quello che credo sia l’interrogativo da discutere: che si riduce al seguente quesito. “Siamo sicuri che un progetto approvato dopo una procedura amministrativa annosa, con il timbro di diversi livelli e di tutte le istanze istituzionali preposte interpreta davvero l’interesse generale?” Temo che la risposta a questa domanda, nel nostro paese, ma non solo, non possa essere positiva per default. Dopo molte esperienze non proprio edificanti, non possiamo liberarci del dubbio. Inoltre la decrescente qualità del controllo amministrativo e la crescente impudenza dei potenti e l’impotenza dell’opposizione in questo paese, rendono poco convincente l’argomentazione formale sulle approvazioni pregresse e rendono molto legittime invece le analisi critiche, anche a valle dell’approvazione, e giustificabili le reazioni di interessati, che siano oggetto di una discarica o di un cantiere perenne, se hanno l’impressione di dovere pagare per tutti in un mondo in cui da parte degli “sviluppisti” si pratica poco il senso di responsabilità. Proprio su ArcipelagoMilano Cino Zucchi ha scritto a proposito dell’ex edificio ENEL: “Le connivenze tra politica e affari degli anni ottanta non hanno lasciato solo degrado morale e costo sociale, ormai forse dimenticati: hanno lasciato soprattutto una serie di edifici sbagliati per collocazione, qualità architettonica, efficienza energetica e durabilità materiale”.

Antonio Polito ci viene a spiegare, dopo circa trent’anni, cosa è il NIMBY, e ce lo traduce anche (“Gli americani che vanno pazzi per gli acronimi …” Il Corriere della Sera, domenica 4 marzo 2012, p. 39). Però non sono gli americani, ma gli inglesi, ad avere inventato questo acronimo e molti altri (legati proprio ai problemi derivanti dal conflitto tra interessi, che si presentano come generali, e resistenze sempre dipinte, a torto o a ragione, come particolaristiche) tra cui quelli che si adattano di più alla situazione del NOTAV, il PIBBY, Put In Blacks’ Back Yard, che, ove abusato, porta al BANANA, Build Absolutely Nothing Anywhere Near Anything (or Anyone). Però, come lo stesso Polito riconosce non si tratta di un fenomeno italiano, ma generale “in tutto il mondo sviluppato” (ivi). Non solo: c’è la storia molto carina delle ragazze di una comunità rurale indiana (nel Rajasthan) che si sono ribellate alla costruzione di un acquedotto che gli avrebbe fatto risparmiare parecchie ore al giorno di cammino con l’anfora in testa per andare a prendere l’acqua alla lontana sorgente, ma le avrebbe private anche dell’unico periodo di libertà dall’occhiuto controllo delle madri (1). Vedi un po’ le contorsioni delle libertà! Se il termine non è italiano vuol dire che il problema non è solo italiano.

Sempre dallo stesso Corriere su cui scrive Polito, in prima, titolo centrale quattro colonne (con assai eloquente vignetta di Giannelli): “Grandi opere si cambia così. Il governo prepara nuove regole sul modello francese. Consultazioni di sei mesi con i cittadini prima di cominciare”. Ma allora questo famoso dialogo fino a ora non c’era, come dichiara lo stesso Mario Virano. Che ci vengono a raccontare?

Non si può non notare che molti economisti di vaglia e competenti, a cominciare da Marco Ponti e dai colleghi de La Voce.info, che non sono proprio degli sfegatati, sono contrari con argomenti piuttosto ben documentati. E ripresi oggi con molti particolari anche dal Fatto Quotidiano. Non vogliamo essere tagliati fuori dal famoso corridoio, ma il legame riguarda soprattutto il traffico merci. Quanti sono i VIP che vogliono andare in treno senza cambiare da Minsk a Madrid?

Il fulcro del discorso dovrebbe proprio riguardare i vantaggi comparativi di questa grande opera con altre. Pur avendo goduto di notevoli vantaggi sulle tratte MI/BO, MI/FI e MI/RM ho anche pagato dei buoni biglietti e mi domando se davvero il sogno neo – liberista e berlusconista di promuovere lo sviluppo economico in Italia si può realizzare solo rendendo la vita più facile a qualche migliaio di VIP ma trattando come bestie centinaia di migliaia di lavoratori pendolari che devono alzarsi al mattino alle 4 e non possono neppure andare al cesso fino all’arrivo perché i cessi non funzionano. Oppure tagliando fuori centinaia di comuni. Si fa così lo sviluppo? Si unifica così il paese? Guardate un po’ gli effetti finali dell’AV. Si parla di “bene comune”, ma i risultati non sono affatto gli stessi per tutti.

Il pensiero established è unanime nel condannare le infiltrazioni e i professionisti della protesta contro chi vuole “modernizzare il paese”: d’accordo. Ma a me questi termini fanno suonare corde non sempre gradevoli: con questa scusa per decenni si è devastato il territorio italiano con profitti incredibili per qualcuno. Certo le cronache dei partecipanti “di mestiere”, per così dire, a questo tipo di proteste, mettono sempre in risalto gli aspetti più grotteschi e meno attraenti. Non mi piacciono quelli che salgono sui tralicci e le ultime parole di Abbà prima di cadere non depongono molto a favore della sua intelligenza. Il Capo dello Stato ha perfettamente ragione, le violenze e le illegalità non pagano e vanno condannate: mi è sembrato peraltro un tratto di ingenuità, o forse di strumentalità eccessiva, rivolgersi al Presidente della Repubblica come a un’ultima istanza. Non è il Re Sole con potere assoluto; e che avrebbe dovuto dire Napolitano, se non che non è di sua competenza? (noto comunque che il suo intervento non è stato enfatizzato da tutti allo stesso modo. Il Corriere lo mette nelle pagine interne).

Non mette neppure conto menzionare gli insulti e le minacce contro Caselli cui invece va la mia stima e che credo, come molti magistrati, sia abituato a riceverne di ben peggiori dai leghisti e dai vari scherani berluscoidi che ora fanno la bocchetta tonda. Ma gli insulti e le minacce ai giornalisti denotano un livello di decerebrazione avanzato e di preoccupante autoemarginazione estremistica. Senza la stampa, i poliziotti picchiano più duro, è conoscenza basica. E senza i mass-media a far da eco, nessuna delle stramberie brillanti dei NO TAV uscirebbe dal giardinetto di quartiere. Comunque ricordo che ora il GiornaLibero chiama “cretinetti” i manifestanti e, stando a Luca Telese (Il Fatto, 4 Marzo 2012) potrebbe anche avere qualche ragione, se non venisse in mente che sono quegli stessi che chiamavano “I bamba in piazza, pochi, ma violenti” i pacifisti, il giorno della disgraziata entrata di Rummy Rumsfeld a Bagdad. E si è poi visto chi erano i bamba. Sappiamo tutti benissimo che, esattamente come avviene in tempo di guerra, in occasione di violenze di piazza la verità si nasconde dentro al pozzo, ma gli ultrà che vanno a menarsi in piazza per il piacere di menarsi, non hanno alcuna simpatia da parte mia.

Detto questo siamo sicuri che non ci sia nessun legame tra i fatti che così sonoramente denuncia Polito e l’articolo a fianco (“Troppo giovani o vecchi per il lavoro” p.39) sugli esclusi dal mercato del lavoro? Ma si dice, dobbiamo preservare il bene comune: io ho capito poco del dibattito sul bene comune, quando sento queste parole (Nazione, Stato, Società, Bene comune, Interesse collettivo ecc) i miei nonni romagnoli mi fanno solletico ai piedi durante la notte. Forse dovremmo rivolgerci a Ugo Mattei, che è uno dei maggiori esperti di “bene comune” in Italia. Attenti, però: è fortemente NO TAV.

 

Guido Martinotti

 

 (1) Jean – Marc Lévy – Lebond, Impascience, Bayard, Paris 2000, p.129

 

 



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