TOURNEE 

di Mathieu Amalric [Francia, 2010, 111′]
con Mathieu Amalric, Julie Ferrier, Damien Odoul, Miranda Colclasure, Suzanne Ramsey, Linda Marraccini, Julie Ann Muz, Angela de Lorenzo
 

“Per te che cos’è il New Burlesque?” chiede un giornalista durante l’intervista al gruppo di donne che mette in scena lo spettacolo. “È una donna che si esibisce per le donne, così l’uomo non la tiene più sotto controllo”.La risposta di una delle protagoniste di Tournée, ultima opera cinematografica di Mathieu Amalric, racchiude l’originalità di questo sguardo intimo e profondo sul mondo del Burlesque, finora rappresentato sul grande schermo solo attraverso una centrifuga inconcludente di musiche e scintillii. Amalric ci conduce coraggiosamente, attraverso la doppia funzione attore/regista, in questo viaggio lungo la Francia al seguito di un gruppo di donne americane riunite per l’occasione e impegnate in una tournée di Burlesque.

Se l’alter-ego di Amalric nel film è un agente inconcludente, irascibile e lunatico, l’originale, dietro la macchina da presa, è straordinario nel riuscire a mostrarci tutta la profondità di questo gruppo di donne che diverte, provoca, emoziona il pubblico sia in teatro sia in sala. Il Burlesque è quindi l’arte che realizza il loro desiderio di femminilità. Il mascheramento che ne consegue le libera di una parte nascosta del proprio carattere, risulta essere lo strumento indispensabile per la necessaria seppur breve scrollata alle ansie e alle frustrazioni della vita.

Amalric ricorre costantemente all’uso di primi piani, lo fa per soffermarsi accuratamente sulle espressioni del volto e i continui mutamenti delle sue giunoniche compagne di viaggio. Tutto ciò gli rende possibile un’indissolubile empatia da parte dello spettatore che, prima di poterlo coscientemente realizzare, si trova coinvolto nei sentimenti e nelle vicende di questo poetico gruppo di spogliarelliste.

 Marco Santarpia

 In sala a Milano: Cinema Centrale
 

 

IN UN MONDO MIGLIORE

 di Susanne Bier [Hævnen, Danimarca, Svezia, 2010, 119′]
con: Mikael Persbrandt, William Jøhnk Juels Nielsen, Markus Rygaard, Ulrich Thomsen, Trine Dyrholm

C’è un’immagine in In un mondo migliore [Hævnen, Danimarca, Svezia, 119′], di Susanne Bier, perfetta per riassumere il senso e le sensazioni del film: Anton (Mikael Persbrandt), padre di Elias (Markus Rygaard), si fa schiaffeggiare da un altro uomo davanti ai figli, per dimostrare che la violenza non va combattuta con altra violenza. Anton, medico missionario in Africa, ha occasione di osservare il “suo” mondo – la Danimarca – e il mondo “altro” – l’Africa – riempiendosi gli occhi di violenze e sopraffazioni; non ci sono differenze: l’essere umano ha il seme della vendetta radicato sotto pelle. Per questo non reagisce a quello schiaffo, «che mondo sarebbe se facessero tutti così?», si domanda. Nella non-reazione di Anton s’intravede una citazione biblica: «a chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra», è scritto nel Vangelo di Luca [6, 27-38]. Padre Alex Zanotelli – missionario comboniano a Nairobi – nel suo libro Korogocho [Feltrinelli, 2003] dà un’interpretazione interessante del “porgere l’altra guancia”. Secondo Zanotelli, non significa assumere un atteggiamento passivo e di sottomissione, ma «sabotare il sistema»: uno schiavo, in quei tempi, veniva colpito in volto dal suo padrone con il dorso della mano, perché quest’ultimo non avesse a sporcarsi le mani, la guancia colpita era dunque la destra; porgere la guancia sinistra era un modo per impedire al padrone di colpire ancora, era un modo per “interrompere il sistema”. Questo potrebbe essere il senso dell’immagine scelta dalla Bier: rivoluzionare un mondo governato dalla vendetta (Hævnen in danese significa proprio vendetta).

Nella stessa immagine, però, ritroviamo anche le nostre sensazioni. In sala ci sentiamo coinvolti come spettatori ma, soprattutto, come uomini. Condividiamo la scelta pacifica di Anton ma, nel profondo, combattiamo con quel desiderio di vendetta che ci spinge all’azione impulsiva. Siamo consapevoli – come Anton – che la “vittoria” stia nella capacità di essere superiori a una reazione sanguinea ma, allo stesso modo, tormentati – come il piccolo Christian (William Jøhnk Juels Nielsen) – da un desiderio di rivalsa immediata. Questo miscuglio di emozioni è l’incipit ideale per narrare la “storia della violenza” (A History of Violence?) che la Bier sviluppa nel suo film. Ma, oltre a essere nel film, questa storia è anche nel mondo, in qualsiasi mondo. Cinema e mondo s’intersecano e si rimandano a vicenda o, ancora meglio, siamo noi a partecipare da protagonisti al mondo che sta nel cinema.

La fragilità umana è rappresentata attraverso l’esperienza dei bambini. Come in Il nastro bianco [Austria, Germania, Francia, Italia, 2009, 144′] di Michael Haneke, il seme della violenza viene depositato nelle nuove generazioni. Lì (nel film di Haneke) eravamo in Germania, qui (nel film della Bier) siamo in Danimarca. In realtà, non importa il contesto: la sete di vendetta sembra attecchita nel dna dell’essere umano. Dentro e fuori dallo schermo del cinema.

Nonostante il finale del film della Bier forse un po’ troppo lieto, quello che rimane è una forte inquietudine perché noi – a differenza di Anton – dopo aver ricevuto quello schiaffo non siamo sicuri di come avremmo reagito. Il suo mondo è migliore, il nostro chissà.

Paolo Schipani

 

In sala: Cinema Mexico

  

questa rubrica è curata da Marco Santarpia e Paolo Schipani

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 



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