5 aprile 2022

“BARRIO” SAN SIRO

Interpretare la violenza a Milano


paolo grassi (1)

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Proponiamo uno stralcio del libro di Paolo Grassi “Barrio San Siro. Interpretare la violenza a Milano” appena pubblicato da Franco Angeli nella collana La società/Saggi e studi. Il libro raccoglie i risultati di cinque anni di ricerche etnografiche nel quartiere di edilizia popolare di San Siro. Lo studio, a partire da un focus sullo spazio urbano, interpreta la violenza strutturale – legata cioè alle condizioni storiche, economiche e politiche – che colpisce i margini del capoluogo lombardo, tra le pieghe delle retoriche del suo sviluppo e del suo “rinascimento”. “Barrio San Siro” presenta varie traiettorie di residenti del quartiere – ragazzi di “seconda generazione”, anziani, membri di associazioni – sviluppando un’analisi che collega le pratiche quotidiane alle politiche locali, regionali e nazionali. Il quartiere emerge, pagina dopo pagina, come un luogo in cui si intrecciano condizioni globali e locali, e interessi divergenti di più attori sociali. 

L’estratto riporta l’incipit che apre la prima sezione del libro, un’analisi critica dell’abbandono istituzionale a cui sono soggette le periferie di Milano.

Paolo Grassi è un antropologo urbano, ricercatore presso l’Università di Milano Bicocca. La ricerca a San Siro è stata condotta in collaborazione con il gruppo Mapping San Siro, del Politecnico di Milano, il quale dal 2014 gestisce nel quartiere San Siro uno spazio dell’Università denominato Off Campus (F.V.)

Daniel non ha neanche vent’anni. È alto, magro, gli piace vestirsi bene. Combina stili diversi, accostando come un bricoleur quello che trova: un cappotto di lana, un paio di anfibi, una camicia a volte, il gel sui capelli, qualche goccia di profumo. Si direbbe tutto di lui tranne che faccia rap e che frequenti la scena hip hop della città. E invece passa le giornate a scrivere rime, appuntandole sul suo cellulare. Più che veri e propri testi spesso sono idee, o giochi di parole che poi tiene a mente per lanciarsi in sfide di improvvisazione con gli amici. Parlano di Milano e della “zona”, come ama chiamare San Siro. 

Ci incontriamo alle 11:30 in un bar, beviamo un caffè, gli spiego di nuovo in cosa consista il mio lavoro. Daniel mi chiede di passare da lui. Vuole mostrarmi dove sta vivendo. Lo seguo tra le vie, svoltiamo a destra, poi a sinistra, sbuchiamo dentro a un cortile. Lo attraversiamo, saliamo una tromba di vecchie scale con i parapetti in cemento grigio e i gradini neri. A ogni piano si apre una porta che dà su un ballatoio. Le pareti sono scrostate e piene di scritte in arabo e in italiano. All’ultimo piano, appena prima dei solai, sono state ammassate delle macerie. Sul ballatoio vedo giochi per bambini di plastica e ingressi “lastrati”, chiusi da spesse lamine di ferro per evitare che gli appartamenti vengano occupati.

Daniel vive con alcuni amici in uno di questi appartamenti troppo piccoli per essere assegnati a nuovi inquilini. Sono entrati di notte dopo settimane di preparativi. Qui Daniel trascorrerà solo qualche mese. L’appartamento è composto da un atrio minuscolo che dà su una cucina a destra e su un bagnetto a sinistra, più un’ampia camera a cui si accede scostando un lenzuolo appeso al soffitto. La camera è arredata con un tavolo al centro, tre materassi appoggiati per terra, alcuni scatoloni, cassette della frutta di legno a mo’ di comodini, una cassettiera, una televisione collegata a una console, una pila di custodie di videogiochi. Su una parete è stata appesa una bandiera NO TAV, per terra c’è un poster con Topolino vestito da gerarca nazista:

– È ironico – puntualizza Daniel.

Sul tavolo ci sono resti di sigarette, una bottiglia d’acqua, una caffettiera. In un angolo un bong incrostato. 

Victor, coinquilino di Daniel, sta dormendo sotto un piumone. Sul suo comodino noto due romanzi di Salgari e uno di Hesse, Il lupo della steppa. Viene svegliato dai nostri rumori. Ci sediamo tutti a un tavolo. Parliamo. Di occupazioni abusive, di musica, di famiglia, di lavoro, di scuola, di amicizie, di gang, di “arabi”. Victor ha un’incredibile fantasia che riversa in narrazioni a volte confusionarie, a tratti iperboliche. Imita benissimo gli accenti e le movenze di altre persone. Nel suo repertorio ci sono gli egiziani che spacciano all’angolo della strada, i vigili del quartiere, l’amico sudamericano, i ragazzi dei centri sociali. Victor ha diciannove anni ed è già stato in prigione. Daniel subirà un processo di lì a poco. E poi un altro ancora, a distanza di qualche mese. Nel momento del nostro incontro, Victor lavora una volta a settimana in un bar.

– Anche dodici ore di fila, così mi becco 120 euro e tiro avanti per una settimana.

– In nero?

– In nero.

Pranzo con loro. Prima di sedermi a tavola chiedo di andare in bagno. Non c’è acqua calda e il water non funziona bene. Mentre aspettiamo che la pasta sia cotta ci raggiungono altri due ragazzi. Scaldano del riso e delle verdure, puliscono il tavolo, si siedono a mangiare. Uno mi racconta di star cercando lavoro. Poi prepara uno zaino riempiendolo di accendini, filtri e cartine.

– Perché così tanti accendini? – domando.

– Li vende – mi risponde l’amico.

Daniel e Victor rappano su basi scaricate sul cellulare. Mi chiedono un argomento a caso. Io rispondo «San Siro». Poi Victor sparisce in cucina e ritorna con una zuppiera colma di conchiglie condite con del ragù in scatola. Mi mostra un quaderno con delle strofe. La prima recita: «Mi sporco dal principio».

Paolo Grassi

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