8 febbraio 2022

IL DON GIOVANNI DI STREHLER, FRIGERIO E MUTI

Sulla contemporaneità della scrittura musicale


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In questi giorni è scomparso Ezio Frigerio, il grande scenografo che per decenni ha curato meravigliosi spettacoli lirici in tutto il mondo; la sera della sua scomparsa, per celebrarne la memoria, la RAI ha mandato in onda uno dei suoi storici capolavori, il Don Giovanni del 1987 da lui firmato per la Scala insieme alla moglie – la costumista Franca Squarciapino – con la regia di Giorgio Strehler, concertazione e direzione d’orchestra di Riccardo Muti. 

Nessun’altra trasmissione è riuscita a mostrare con tanta evidenza quanto sia cambiato il mondo dell’opera lirica in 35 anni, cioè nello spazio di una sola generazione. Cambiato, ovviamente, nel bene e nel male.

Partiamo dal trio Frigerio-Squarciapino-Strehler, i responsabili del palcoscenico. Una perfetta ambientazione tardo-settecentesca in cui si integravano armoniosamente luci, colori, abiti, gesti, movimenti, trucchi, senza una sbavatura, senza alcuna concessione alla magnificenza, all’eccesso, alla voglia di épater les bourgeois, e tuttavia di una modernità, di una freschezza, di una credibilità e comprensibilità fantastiche. La coerenza del linguaggio di Lorenzo Da Ponte (che incanto e quanta poesia in quei versi…!) con i comportamenti e i gesti degli attori/cantanti, con gli ambienti essenziali, e tuttavia verosimili ed elegantissimi, suggestivi ed evocativi, con i costumi classici ma semplicemente autentici e veritieri, tutto ciò – insieme ai movimenti di scena suggeriti da Strehler perché risultassero spontanei e naturali – affondava la vicenda e il suo racconto in una totale contemporaneità o attualità. L’intera platea degli spettatori, financo quelli televisivi, si trovavano immersi in quell’atmosfera e la vivevano come fosse oggi, nel senso che si trasferivano in essa e partecipavano in diretta agli eventi.

Di fronte a tanta immediatezza, al significato preciso che le parole assumevano nel loro contesto, di fronte a quel modo di rappresentare il melodramma, tutti i tentativi che da allora ad oggi sono stati fatti per “rendere contemporanea” l’opera lirica sbiadiscono e perdono di senso. C’è da domandarsi che cosa capirà mai un giovane, ancorché studente in un Conservatorio, del Rigoletto di Verdi che vede per la prima volta nella edizione curata da Michieletto, ambientata al tempo di oggi in un parcheggio frequentato da drogati e mafiosi… E venendo al Don Giovanni, chi può pensare che – a partire dalla famosa (peraltro meravigliosa) regia di Peter Brook per l’edizione di Aix en Provence del 1998, fino a quella recente di Robert Carsen per la Scala – siano stati fatti dei passi avanti nella sua comprensione, che siano emersi nuovi contenuti, che si siano provate nuove emozioni rispetto a quello di Strehler e di Frigerio di trentacinque anni fa?

Si dice: il mito di Don Giovanni è eterno, attuale, vive ancor oggi, e dunque bisogna raccontarlo come fatto di cronaca, toglierlo dal contesto settecentesco e riconoscerlo nei giovani “dissoluti puniti” (puniti?) di oggi. Ma questa è un’operazione che tocca allo spettatore, è lui che deve fare la trasposizione “in abiti moderni”, non il regista che ha invece il dovere morale di rispettare un testo che dovrebbe trattare con venerazione. E che non ha il compito di insegnare alcunché agli spettatori e tantomeno di guidarli in una “nuova” interpretazione dell’opera. Lo può fare per un’opera contemporanea, lavorando insieme all’autore per arricchirne il significato. Ma non può far rivoltare nella tomba gli incolpevoli autori dei secoli passati. La lezione di Strehler e di Frigerio è proprio questa: non occorre cambiare nulla del libretto per renderlo contemporaneo, perché lo è già, di suo, se l’opera è appunto “immortale”! Basta saperla rappresentare come la voleva l’autore, aggiungendovi quelle qualità e maestrie dovute ai nuovi mezzi tecnici e alla crescita professionale e culturale degli interpreti di oggi.

Ora veniamo però alla parte squisitamente musicale, all’orchestra e alla sua direzione. Qui si tocca un punto dolente perché dobbiamo parlare di quel mito chiamato, come da lui viene orgogliosamente preteso, “il Maestro”.

Nel 1987 Riccardo Muti aveva 46 anni e da un anno era diventato il direttore musicale del Teatro alla Scala, subito dopo il tormentato addio di Abbado (che veniva chiamato invece semplicemente “Claudio”, e si sa bene il perché: “kein maestro, ich bin nur Claudio” “niente maestro, sono solo Claudio” è stato l’esordio dei suoi rapporti con tutte le orchestre, a cominciare dai Berliner) e dunque, con quel Don Giovanni, inaugurava la sua seconda stagione milanese avendo forse ancora (o già) qualche problema con un’orchestra dal carattere notoriamente difficile.

Ebbene il Don Giovanni di trentacinque anni fa, se l’altra sera l’avessimo solo ascoltato per radio, sarebbe sembrato – quello sì – tremendamente vecchio, recuperato da una soffitta! Se non si può negare infatti a Muti una grande professionalità e una perfetta conoscenza della partitura bisognerebbe spiegargli che tempi perfetti e attacchi precisissimi non sono sufficienti a dare un significato alle note. Muti è sì un “maestro”, ma di quelli che insegnano tutto senza spiegare – e chissà, forse anche senza spiegarsi – nulla. Che conoscono ogni dettaglio ma non trasmettono (o addirittura non posseggono) il senso profondo dell’opera. 

Un esempio per tutti: quando Don Giovanni trascina Zerlina verso il suo ”casinetto”, la musica descrive in modo meraviglioso le titubanze, le incertezze, i dubbi, i timori della ragazza (vorrei e non vorrei, mi trema un poco il core) davanti alle crescenti pressioni, non solo psicologiche, del gentiluomo-narciso; poi arriva il preciso momento in cui lei cede e lui vince, e lì scatta una potente scintilla, non solo nelle parole (andiamo, andiam, mio bene, a ristorar le pene d’un innocente amor) ma soprattutto nella musica che, con improvvisa accelerazione, descrive la subitanea eccitazione dei due amanti. Ma per Muti sono solo note, una dopo l’altra, da leggere così come sono scritte, perfettamente, senza porsi alcun problema sul loro significato. La trepidazione, i pregiudizi che vanno in macerie, la forza dell’eros, la sensualità di cui tutto l’intorno è impregnato, l’emozione della trasgressione …. Quell’improvviso cambio di registro che rappresenta tutto ciò, e più e più ancora, è ignorato dalla fossa d’orchestra, la musica accompagna il palcoscenico senza spiegare, senza partecipare, come un osservatore distaccato.

Se si pensa che la prima mondiale del Don Giovanni ebbe luogo a Praga dove Mozart arrivò la sera stessa della recita avendo corretto i manoscritti per tutta la notte, nella carrozza a cavalli che lo portava da Vienna, e al lume di candela nella stanza in cui fu ospitato dagli Asburgo nel Castello di Gmünd a causa della nevicata. E che dunque i componenti dell’orchestra praghese suonarono leggendo a prima vista quei manoscritti spiegazzati…. Allora capiamo quanto valore si può aggiungere e manifestare proprio grazie alla qualità e alla maestria dell’interpretazione musicale, e dove risiede la modernità e la contemporaneità di un’opera, anche dopo più di due secoli.

Insomma andiamo adagio con questa spinta ad “attualizzare” le opere, e sforziamoci invece di andare sempre più a fondo nella ricerca del significato della scrittura musicale, non dimenticando che la grande musica è implicitamente e necessariamente contemporanea nella misura in cui i suoi interpreti/esecutorii riescono a decifrare nuovi significati nelle labili tracce lasciate sul pentagramma dall’autore.

Paolo Viola

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  1. italo & marialuisa LIn un italiano, finalmente limpido e scorrevole,questo intervento di Viola parla anche ai non addetti ai "lavori lirici".Giudizi veri,entusiasmanti e positivi accompagnati a quelli di severa critica espressi con onestà. Gli amati Strehler/Frigerio rivivono nel ricordo in modo forte e ci fanno ripensare con affetto e rimpianto allo Strehler della Scala e allo Strehler/Frigerio,grandissimi e indimenticabili al PiccoloTeatro. ITALO E MARIALUISA L.
    13 febbraio 2022 • 14:00Rispondi
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