21 dicembre 2021

UN VIAGGIO A PIEDI NELLA MILANO MINIMA

Un messaggio per il sindaco


pivetta

Progetto senza titolo (10) (1)

Un rettangolo di cinquanta metri per trenta, chiuso da una cancellata sfondata in un punto da chissà quale remoto urto, una piastra di cemento grigio, dalle fessure spuntano magri arbusti piegati dal gelo, tra scatole, lattine, bottiglie, sacchetti di plastica, di là un caseggiato di qualche pretesa, di qua la strada e il marciapiede, di fronte l’ospedale San Carlo, alle spalle, a duecento metri, lo stadio Meazza, San Siro, la Scala del Calcio, oggetto di rinnovate e caldissime passioni, gli occhi della città e delle cronache locali puntati sul rettangolo verde, circondato dalle imponenti tribune.

Mirando e rimirando il mio rettangolo di cemento corrotto e imbrattato, per una sfrontata associazione mi è venuto in mente di pronunciare per me, in perfetta solitudine, due parole, “terra desolata”, che è poi il titolo di quel formidabile poemetto di T.S. Eliot, scritto nel 1922, quattro anni dopo la fine della guerra, all’approssimarsi di fascismi di vario genere (noi il fascismo già lo conoscevamo), titolo che è poi la traduzione dell’inglese “The Waste Land”, che volendo si potrebbe rendere alla lettera e meno poeticamente “terra spazzatura”, definizione più adatta a rappresentare oltre il sentimento e nel peso del degrado  certi luoghi di confine milanesi, certi luoghi che nascondono misteriose storie, interrogativi, dubbi, “macerie di pietra”.

Quali dimenticanze, quali errori, quali tracolli avranno generato quel posto, a  proposito del quale si saranno probabilmente misurati gli egoismi di qualche speculatore e le fantasie di qualche progettista, oltre che gli impacci di una pubblica amministrazione. Quali motivi potrebbero spiegare lo spazio vuoto, segnato però da una storia non breve, come mostrano le fessure del cemento, la moltiplicazione degli arbusti, l’immondizia disseminata? 

Terre spazzatura le incontro camminando in quel passaggio a nord ovest rivolto verso i confini di Cornaredo. Imbocco uno sterrato, lungo il quale, sui due lati resiste una vegetazione, che non so qualificare, ai piedi della quale si alzano depositi di rifiuti, specialmente edilizi, piastrelle spezzate, sanitari, una cucina, un fornetto. Si possono ritrovare l’anima di tanti computer e gli schermi, scatoloni che appartengono ormai ad un’era passata dell’informatica e potrebbero custodire numeri, pensieri, decisioni. I sacchetti di plastica penzolano dai rami. Il fondo è di sassi che si alternano a buche rivestite ancora di ghiaccio. Si procede tra baracche di lamiera e mura di cinta che chiudono carrozzerie, depositi, gomme, ruote, carcasse d’auto, che condividono il paesaggio coi prati esterni… 

Seguo un’altra strada al lato di un condominio, una architettura che vorrebbe primeggiare per eleganza sull’edilizia popolare che l’assedia. Svoltando a sinistra, a ridosso della cancellata, m’avvio per uno sterrato come il primo, buche, fango e rottami. Pochi metri e una rete chiude un frutteto. Mele, si intuisce, alberi in perfetti filari. Il lavoro – mi informo – è di un gruppo di volontari riuniti in cooperativa. Si potrebbe ricorrere a un altro titolo, “Le meraviglie di Milano”, Bonvesin de la Riva, sette secoli fa. Meraviglie nel senso di stupori, sorprese e una bellezza inattesa quando fra qualche mese i lunghi rami appariranno tempestati di fiori bianchi, rosa, rossi, azzurri. Chi potrebbe immaginare dalle strade vicine, tra i detriti della campagna, il meleto, nella sua ordinata semplicità e nella pulizia.

Avanti è il cimitero dei cani, come un cimitero di umani, solo le lapidi più piccole, come più piccoli sono i ritratti degli amati quadrupedi e i decori. Di là, dal cancello, la campagna si estende piatta e larga, segnata dagli orrendi tralicci dell’alta tensione. Siamo alla fine della città e l’orizzonte, per miracolo, non si interrompe di fronte a una teoria di edifici.

Una mattina mi ritrovo dall’altra parte di Milano, dall’altra parte come avessi seguito una diagonale che attraversa piazza del Duomo. Mi capita un intervallo tra una pratica e l’altra e cerco di camminare. Alzo gli occhi e leggo la targa: “Via Vittorini”. Come potrei trascurare Vittorini, abbandonato all’anonimato di questo quartiere. Da un lato un parcheggio e poi un piccolo parco, dall’altro edifici a un piano, o due piani, e insegne sopra i negozi che promettono trattorie, birrerie, bar, non so che altro. Ma non vedo che saracinesche abbassate e divorate dalla ruggine, nessun segno di vita. 

Continuo per via Vittorini, supero per un ponte un corso d’acqua e un cartello annuncia “Peschiera Borromeo”. Torno indietro per prendere una strada lungo la sponda. Capisco: è il Lambro. Forse prima di tutto lo intuisco dall’odore che risale dalle “limpidissime acque” (Francesco Petrarca), che scorrono  tra due rive di terra che non sa ormai che cosa sia la terra, tanto è intrisa di tinture, oli, vernici, terra che in un accurato carotaggio potrebbe ricomporre la storia dell’industria lombarda. Il fiume è stato forza motrice per cotonifici, concerie, aziende meccaniche, aziende chimiche e canale di scolo per le fognature di tanti comuni, Milano compresa… Una decina d’anni fa, dalle cisterne della Lombarda Petroli, poco sopra Monza, per un incidente o per sabotaggio, vennero riversati seicento metri cubi di idrocarburi.

Di fronte sorgono altre case basse, un lato dell’isolato, la cui origine non si intuisce, tanto sono state manomesse, modificate, tanto sono sbrecciate e corrose dal tempo. Forse sono anch’esse residui di antiche cascine, adesso leggendo i nomi ai citofoni sono la mappa delle ultime immigrazioni. Che ci fa qui, davanti all’irrigua pianura lombarda, chi viene dalla Siria o dal Marocco, chi viveva con il deserto alle spalle? Nella nebbia invernale che si fa spessa, in un silenzio che le auto di rado interrompono. I  muri non sono imbrattati di scritte e tanto meno di manifesti, come se non ci fosse nulla da annunciare, non un prodotto o uno spettacolo e neppure una protesta. Niente da comunicare.  

Questi casi valgono altri mille casi e se ne potrebbe comporre una guida, di strada in strada, di vicolo in vicolo, di rettangolo in rettangolo… Potrei accompagnare un visitatore attento tra queste rovine, tra questi resti e saremmo sempre a Milano, dentro i limiti di Milano, ben prima di Peschiera o di Cornaredo o di qualsiasi altro paese oltre la cintura. Sarebbe una visita utile forse necessaria anche per il sindaco Sala, che potrebbe riconoscere fortune e sfortune di una città sconosciuta, il bordo tra Milano e gli altri paesi, che insieme fanno la Città Metropolitana, entità immaginaria per me, perché ne sento parlare (anche in questi giorni per via di elezioni), ma non so mai che cosa produca. So solo che è la “grande Milano” cresciuta nel dopoguerra, veloce, tumultuosa, senza controllo, infelicemente classista nella distribuzione sul suo territorio di ricchezza e bellezza.

Fosse per me partirei da quel bordo che si chiude seguendo un disegno irregolare, tratto d’unione tra opposte vocazioni, una risorsa se si volessero sottrarre quei luoghi e quei non-luoghi al degrado, all’inquinamento, all’abbandono, dove l’agricoltura ha lasciato il posto alla città e alle meno appariscenti cittadine attorno, senza che l’una e le altre siano riuscite a impossessarsene del tutto, lasciando così un’opera incompiuta. Forse la Città Metropolitana dovrebbe riprendere l’opera, basterebbe un censimento per ricominciare e poi per riprogettare quei posti, per connetterli di nuovo alla “metropoli” appunto e alla vita, procedendo una volta dal “confine” dimenticato. 

Oreste Pivetta

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  1. Bianca botteroCaro Pivetta,se sei nell'oovestt passa da via Civitali, tratto Paravia/Morgantini....
    29 dicembre 2021 • 10:35Rispondi
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