8 maggio 2018

L’ECONOMIA MILANESE NON GIOCA IN CHAMPIONS LEAGUE

Le prospettive dell'area metropolitana


L’economia dell’area metropolitana milanese-Milano ha giocato delle buone partite negli ultimi anni. Il tessuto economico ha retto bene, è più articolato di ieri, ha non pochi punti di eccellenza. L’area ha una buona rete di telecomunicazioni e una buona rete elettrica. L’infrastruttura di trasporto su ferro, stradale, autostradale e aeroportuale non è eccezionale ma è semi-adeguata. Nel paragone su queste reti e infrastrutture New York e Londra non stanno meglio di Milano. Alcuni importanti indicatori indiretti, come il volume di traffico aereo, il numero di passeggeri trasportati dalla rete metropolitana e il numero di visitatori esteri vedono Milano alla pari o meglio piazzata rispetto a Barcellona e Monaco di Baviera.

03lizzeri17FBParagonandola ad una squadra di calcio, l’economia dell’area metropolitana di Milano non è tuttavia in Champions League. Ed ha molta strada da fare per arrivarci. Occorrono almeno cinque importanti passi in avanti. Nessuno di essi è impossibile, ma occorrono probabilmente almeno dieci anni per ottenere dei buoni risultati.

Buoni allenatori. Negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Australia l’università è da tempo un potente fattore di sviluppo. Lo stesso è avvenuto più di recente in Cina, Corea e Singapore. Francia e Spagna stanno mettendosi sulla stessa strada. Le università milanesi sono invece molto lontane dall’essere allenatori da zona Champions. Prendendo il piazzamento più favorevole tra le due graduatorie più autorevoli, il Politecnico si piazza al 170° posto, l’Università Statale al 325°, la Statale Bicocca al 450° posto.

Segni di cambiamento positivo nelle maggiori università esistono, ma centinaia di altre università in giro per il mondo corrono più velocemente. Io non sono di certo in grado di dire cosa debbano fare le Università milanesi per fare altrettanto. Ma di sicuro si possono importare allenatori dall’estero, come fanno spesso le squadre della Champions. Soprattutto se c’è un vasto bacino di oriundi da cui pescare.

Nelle migliori università europee ed americane esistono molti docenti e ricercatori che hanno lasciato l’Italia negli ultimi 30 anni. Un esempio su tutti: il 5% dei professori delle 10 migliori facoltà di economia negli Stati Uniti sono nati e cresciuti in Italia (ex bocconiani in buona parte). Tanti di questi potrebbero dare una mano preziosa se ci fosse qualcuno interessato ad avvicinarli.

Esistono due eccezioni positive. Di nicchia ma importanti. La Scuola di Design del Politecnico si piazza 7ª in graduatoria tra le scuole di Design a livello mondiale. Ottimo risultato anche se favorito dal grande bacino del design milanese, di cui non beneficiano le due università inglesi e le quattro statunitensi che la superano in classifica.

Ancor più importante il risultato messo a punto dalla Business School della Bocconi, che si colloca al 29º posto nel mondo e al 6º in Europa nella graduatoria del Financial Times. Ci sono voluti decenni di lavoro duro per arrivare a questo risultato, che la Bocconi per prima non giudica ancora soddisfacente. C’è sicuramente qualcosa dell’esperienza di quell’università che può essere copiato dalle tre maggiori università milanesi.

Giocatori giovani. Nel panorama dell’economia dell’area milanese sono quasi assenti le tecnologie più recenti: informatica, galassia Internet, biotecnologie, intelligenza artificiale. Si salvano solo (e abbastanza bene), automazione industriale e robotica. Non si va in area Champions con una squadra relativamente vecchia. Sarebbe da sciocchi presumere di sapere di sapere come ringiovanire l’economia milanese. Convegni sulle start-up e quant’altro sono di moda, ma non portano lontano.

Non potendo contare sull’allenamento dell’Università (come hanno fatto e fanno Silicon Valley e l’area Oxford-Cambridge) sarebbe opportuno verificare come si possano creare a Milano le condizioni che hanno permesso alle tre maggiori città europee (Londra, Parigi e Berlino) di diventare, un po’ a sorpresa, luoghi vivaci di creazione di innovazione tecnologica.

Un vivaio che non spreca. Troppi ragazzi dell’area metropolitana milanese studiano poco, studiano male, o non imparano un mestiere. Vivranno in un mondo in cui dovranno fare i conti con loro uguali usciti da ben altro curriculum formativo. È colpa di quei ragazzi? Forse un po’ sì. È colpa anche del fatto che in molte famiglie non vi è la percezione che l’investimento nell’istruzione dei propri figli è l’unico investimento che conti per il loro futuro. Ma è soprattutto l’esito di un sistema formativo spesso carente dal punto di vista qualitativo, e altrettanto carente dal punto di vista quantitativo. A che serve un’università che sforna tanti avvocati ben istruiti se l’area metropolitana richiede ingegneri, tecnici, matematici ecc.? Discorso complesso e lungo, che sfugge alle competenze dirette degli amministratori locali. Ma sul quale essi possono fare parecchio in alleanza con quanti (e sono tanti) hanno una percezione piena dell’esigenza di superare queste grandi aree di spreco.

Un campo senza buche. Per andare in zona Champions, oltre al vivaio, va curato il campo di gioco. Gli amministratori locali qui hanno una competenza piena. Svariati chilometri quadrati di prezioso terreno pubblico sono adibiti al parcheggio, gratuito o semi-gratuito, di centinaia di migliaia di automobili. Quasi mezzo milione di auto entrano a Milano ogni giorno, con a bordo in media solo 1,26 persone. Altrettante probabilmente si muovono tra le aree esterne al capoluogo, con lo stesso carico di passeggeri. Se le persone trasportate in media fossero 2, o se la stessa auto fosse utilizzata da più persone, sarebbero centinaia di migliaia di automobili in meno che si muovono ogni giorno sul territorio metropolitano. Inquinamento minore, minori costi, strade più libere. Esiste un numero crescente di applicazioni software e di iniziative imprenditoriali che permettono di rendere collettivo l’uso dell’auto. Milano città e altri comuni hanno iniziato da tempo a lavorare su questo terreno (percorsi ciclabili, bike sharing, car sharing ecc.). Ma la struttura dei prezzi (soprattutto quelli relativi al consumo della strada e alle aree di parcheggio) non è stata quasi toccata e quindi il grande spreco continua. Su un campo con delle buche non si giocano partite di Champions.

La lingua degli arbitri. Per andare in zona Champions, infine, occorre parlare inglese: lingua necessaria per capire gli arbitri e farci capire da loro. Quando nel 1965 Lee Kuan Yew portò Singapore all’indipendenza dalla Malesia, Singapore era un territorio povero, molto più povero dell’Italia dell’epoca. Aveva il vantaggio di essere collocata in una posizione strategica, ma vi erano grandi dubbi sulla possibilità di una convivenza pacifica tra la maggioranza cinese e le due minoranze malese e indiana, ciascuna con lingua, religione e tradizioni marcatamente diverse.

Nel giro di mezzo secolo Singapore ha triplicato la sua popolazione, ha raggiunto un livello di reddito pro-capite più che doppio rispetto a quello italiano, è diventata una piazza finanziaria di primo livello, si è dotata di un porto e di un aeroporto tra i più grandi ed efficienti al mondo. E’ diventata per giunta un territorio con flussi di traffico ottimali, ottenuti anche penalizzando in modo formidabile l’uso dell’automobile privata. Il passo fondativo di questo percorso avvenne quando, poco dopo aver raggiunto l’indipendenza, il presidente Lee fece una scelta rivoluzionaria: “obbligò” i cinesi, i malesi e gli indiani di Singapore ad adottare l’inglese come la lingua nazionale di fatto. Pubblica amministrazione e scuola avrebbero da allora in poi parlato solo, o anche, in inglese.

Nulla di simile è possibile a Milano. Ma la lunga marcia per far diventare l’inglese la seconda lingua universalmente parlata nell’area metropolitana milanese è indispensabile. Deve arrivare presto il giorno in cui potrà succedere al visitatore tedesco a Milano quello che è successo a me a Monaco di Baviera tre anni fa. A causa di lavori in corso, il navigatore dell’auto non riusciva a portarmi a destinazione. Ho avvicinato un tedeschissimo vigile urbano per chiedere lumi e gli ho chiesto se parlasse inglese: “of course” è stata la risposta.

Eppure Monaco conta la metà dei turisti internazionali di Milano.

Giancarlo Lizzeri

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