19 marzo 2018

SINISTRA: DA DOVE RIPARTIRE?

Il "modello Milano" non sono né Pisapia né Sala


Chi sta da una certa parte dello “schieramento politico” (e vorrei immaginarlo assai largo, dai contorni non proprio rigidi, e mi piacerebbe dire “culturale” più che politico facendo riferimento alle idee più che alle bandiere, ai romanzi e ai film più che alle tessere, alla libertà critica più che al conformismo della moda) si sarà assai interrogato dopo le elezioni a proposito della cosiddetta “ripartenza”. Da dove ripartire? E perché ripartire? Con quali obiettivi? Per ridare vigore ad un partito dissanguato, per qualche punto in percentuale in più, o per ricreare cuore e spazio di una democrazia declinante, un sostantivo o poco più per tanti ormai?

02pivetta11FBIl risultato di Milano avrà indotto molti a decidere che da qui, all’ombra del Duomo, si potrebbe ripartire, dal “modello” Milano, che non è un’invenzione di Pisapia o di Sala, ma ha una storia secolare e un segno fortissimo nel dopoguerra, negli anni della ricostruzione, negli anni del saldo intreccio tra politica, amministrazione, lavoro, cultura. Peccato che quel modello, di cui orgogliosamente ci vantiamo, non sia diventato nazionale, non mi pare sia diventato traguardo per il resto d’Italia, malgrado gli apprezzamenti, presto cancellati quando sul tavolo dei giudici si ammucchiarono le carte di tangentopoli. Il laboratorio milanese non è mai riuscito a produrre merce d’esportazione.

Peccato che, se si vuol ripartire da qui, si dovrebbe riconoscere che si riparte da un salvataggio più che da una vittoria, con la Lega che cresce, i cinque stelle che crescono, il cosiddetto populismo che si diffonde, il PD (centro dell’alleanza governativa) che annaspa nei quartieri delle periferie e regge solo tra i redditi alti, in palese contraddizione con la sua natura e con la sua stessa ragion d’essere, partito della media e alta borghesia, colta ed emancipata (anche rispetto ai messaggi divoratori di tutti i media), sempre meno della superstite classe operaia.

Mi pare che anche il sindaco Sala se ne sia reso conto, quando ha ripreso insistentemente il tema delle periferie, dopo averlo esaltato in campagna elettorale e dopo averlo dimenticato nel corso della sua gestione, se non traducendolo in emergenza d’ordine pubblico, promettendo ora grande rilancio e grande slancio, perché è con quei territori, fisici o metaforici, che si devono ristabilire relazioni. Sarebbe bello se Sala riuscisse a mantenere fede alla promessa, perché investire nelle periferie obbliga certo ad una oculata amministrazione, all’impiego di tante risorse, pure alla riscoperta di tanta fantasia, ma anche a riconsiderare il modo di fare politica.

Forse è dal basso e dal piccolo che bisognerebbe ripartire, dal momento che i grandi progetti non mi sembrano alla nostra portata e quelli che abbiamo intravisto per decenni sono stati spediti al macero o sono risultati, nella concretezza del vetrocemento metropolitano, dei presuntuosi grattacieli, del tutto estranei. Fossi il sindaco girerei in periferia con un taccuino in mano e annoterei le considerazioni dei miei concittadini e le mie osservazioni a proposito di giardinetti, aiuole, siepi, semafori eccetera eccetera… Lo faceva anche Ed Koch, sindaco a New York per dodici anni (come racconta Jerome Charyn in un libro da leggere, “Metropolis”).

Farei in modo che il decentramento non sia la riproduzione dell’esercizio burocratico del centro, ma un luogo davvero di presenze e di partecipazioni. Altro che la piattaforma Casaleggio-Grillo. Con la certezza che inventare una piazza può aiutare a ricostruire identità e appartenenza e pure alleanze, che non nascano soltanto sotto un simbolo di partito ma alla luce di una visione condivisa e generale. Potrebbe aiutare pure redigere un inventario dei mali della città, che vive sull’onda di un successo, che smorza i suoi connotati peggiori, ma non li cancella.

Si può dire quanto Milano sia efficiente, quanto sia benestante, persino imbellita, rinnovata, accogliente, persino solidale, ma non si possono dimenticare emarginazione, povertà, paure, disoccupazione o sottoccupazione, inquinamento, mediocrità culturale (le code alle mostre non certificano la loro qualità e mi sembra di cogliere le sofferenze anche delle istituzioni più titolate, dal Piccolo Teatro alla Triennale), volgarità e brutalità di vario genere. Non è morta la speculazione, che ne deturpò le periferie negli anni sessanta e settanta (e che non ha cessato di deturparla).

Per tornare alla domanda d’inizio, “da dove ripartire?”, a Milano, comunque, non si riparte da zero. In questo ci si può riconoscere orgogliosi. Almeno la città è pulita e i tram funzionano. Soprattutto sopravvive una rete di associazioni, cioè di persone, che avranno rinunciato alla politica, che hanno subìto la crisi della politica, che diffidano della politica, ma che non si sono sottratte all’impegno nel sociale o nella cultura (che sia arte o spettacolo) e non credo si sottrarrebbero ad altre responsabilità. Cito Milano, ma credo che l’impresa, senza retorica, dovrebbe valere per un paese intero, afflitto dalla propria miseria culturale e politica, dalla rinuncia, dalla facilità e dalla gratificazione della protesta generica, amplificata con compiacimento dai media, mai analizzata nelle sue radici. Impresa velleitaria? La politica non dovrebbe essere rissa per una poltrona. Dovrebbe essere strategia che dal poco dei quartieri, delle periferie mette assieme visioni, valori e persone. Ma immaginarla non è certo mestiere da amministratore di condominio.

 

Oreste Pivetta

 

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