13 febbraio 2018

I MEDIA, LE INFORMAZIONI E LA CAMPAGNA ELETTORALE

La scomparsa della regola aurea di dividere i fatti dalle opinioni


Secondo l’ultimo rapporto Italia dell’Eurispes solo il 28,9 per cento dei cittadini sa che l’incidenza di stranieri sulla popolazione è all’8 per cento; solo il 31,2 per cento valuta correttamente la presenza di immigrati di religione islamica che è del 3 per cento. Più della metà del campione, al contrario, sovrastima la presenza di immigrati nel nostro Paese: per il 35 per cento si tratterebbe del 16 per cento, per il 25,4 per cento addirittura del 24 per cento. Cioè: un residente su quattro in Italia sarebbe non italiano, un quarto della popolazione italiana riterrebbe che un altro quarto sarebbe costituito da stranieri. Quindici milioni. Credo che ben pochi immaginino che gli immigrati non solo arrivano in Italia, ma se ne vanno anche: secondo l’Istat il saldo per il 2017 sarebbe negativo (ovviamente i numeri dell’Istat si riferiscono a “residenti”).

02pivetta06FBE gli immigrati “clandestini”? I “clandestini” potrebbero essere “richiedenti asilo”, “rifugiati”, “beneficiari di protezione umanitaria” (secondo la Convenzione di Ginevra), “vittime della tratta”, “migranti irregolari” (ad esempio chi resta con un visto turistico scaduto). Rimando alla Carta di Roma, carta deontologica che dovrebbe essere un vincolo per chi scrive su giornali o comunica in tv.

Poche ore dopo la sparatoria di Macerata, vittime sei giovani nigeriani, il sito del più importante quotidiano italiano, apriva dedicando due righe del titolo alla notizia, la terza ad una dichiarazione di Salvini: “Colpa di chi ci ha riempito di clandestini”. Così per l’intera giornata.

Non voglio scrivere di immigrazione, ma di una propaganda politica che strumentalizza e di una informazione, fatta da giornali e tv, che non restituisce la complessità di un mondo sempre più complicato. La domanda dovrebbe essere: come gli italiani vengono informati e possono formare una propria conoscenza della realtà, possono costruire e ricostruire la realtà, dar corpo ad una opinione, insomma partecipare consapevoli di una democrazia matura? Anche votare, sapendo che cosa si vota.

Nel caso di Macerata e delle dichiarazioni di Salvini siamo di fronte all’invenzione di una storia, per giungere ad una valutazione positiva, dal punto di vista della morale, di azioni che invece la violano. Salvini mistifica per i suoi fini politici. Peccato che il sito di un giornale condivida quell’interpretazione e la propaghi come una verità. Il giorno dopo lo stesso quotidiano, padre dell’online, ha di sicuro corretto il tiro, presentato con equilibrio altre considerazioni, analizzato i dati.

Ma intanto la “storia” (o storiella) fa il suo giro, in una sequenza di argomenti fondati più che sul falso sul “quasi vero” che può sembrare vero, alla fine assolvendo il criminale. C’è sempre un “ma” nelle considerazioni di quanti i vari media hanno interpellato: “non doveva sparare, ma…” L’insinuazione di Salvini s’è fatta strada. Sarà riproposta dai vari talk show pseudo politici che attraversano tutta la giornata televisiva, durante i quali veri o presunti esperti duettano tra di loro o con il pubblico, con la gente, con il cosiddetto uomo della strada, o per dirla con Santoro, inventore di un genere, con la “piazza”, che un tempo s’accontentava di documentare se stessa, ma che con il passare degli anni s’è fatta più aggressiva, invadente, di rado -se non mai- competente.

C’è un altro numero che aiuta a capire: tre milioni. Sono le copie di quotidiani (una sessantina di testate, compresi gli sportivi) che si vendono oggi, la metà esatta rispetto a dieci anni fa. La corsa in discesa non rallenta, malgrado innumerevoli iniziative collaterali (guide, enciclopedie, gadget) provino a stimolare il mercato. Per contrastarla s’è fatto ricorso alla “leggerezza” dei contenuti, nella ricerca di un “popolare” che scimmiotta i settimanali di gossip e di moda. Rapidamente insomma s’è deteriorato lo strumento tradizionale di informazione, di conoscenza quindi e di formazione di una coscienza critica.

Si può dire che la televisione abbia vissuto la stessa parabola? Direi di sì, se pure in questo caso i numeri abbiano ben diversa valenza. L’acquisto di un giornale è un’opzione, il possesso di un apparecchio televisivo vale quanto un obbligo, dettato da interessi di vario genere (dalle serie al calcio) più che da un’esigenza di informazione, tradita per giunta dalla ritualità dei telegiornali: le dichiarazioni mandate a memoria dai politici e recitate al microfono di qualche sfortunato cronista sono la testimonianza di un giornalismo ancillare, che disgusta qualsiasi telespettatore; i dibattiti politici sono ripetitive e rissose sceneggiate dei soliti e anche in questo caso le incompetenze si sprecano (degni di nota i confronti sulla obbligatorietà delle vaccinazioni); le interviste ai “parenti delle vittime”, aperte dal classico quesito “che cosa ha provato?”, sono degne di scomunica.

Con un uso strumentale anche delle “vittime” e quindi della “nera”. Secondo una ricerca dell’Osservatorio di Pavia, ad esempio, le reti Mediaset tendono a collocare il tema della criminalità al centro dell’agenda politica, con un numero di servizi nei telegiornali della sera molto alto e superiore a quello sulla Rai pubblica. E questa potrebbe essere semplicemente una scelta editoriale. Ma la tendenza aumenta nei periodi in cui il centrosinistra, percepito come debole su questo argomento, guida o è parte integrante del governo. In particolare, durante il quarto governo Berlusconi, Mediaset è stata usata come meccanismo di trasmissione di una campagna di informazione volta a creare nell’opinione pubblica un clima favorevole all’approvazione di norme restrittive sull’immigrazione.

Di chi fidarsi allora? Da che parte voltarsi?

Chiuse le fabbriche (autentiche scuole politiche), disertate le sezioni dei partiti – del Pci in particolare (si dovrebbe riprendere in mano la storia della più gloriosa casa editrice italiana, l’Einaudi, per capire il valore culturale oltre che politico di quella esperienza) -, ridotte le parrocchie ai compiti dell’intrattenimento più che dell’indottrinamento (si dovrebbero rileggere le pagine di don Milani sulla “ricreazione”), resta il “nulla” dei media tradizionali, piegati alle esigenze dei consumi, si tratti di politica, di moda, di cultura o di spettacoli (proviamo a fare il conto delle pagine dedicate ai temi più leggeri, dalle diete agli abiti, dalle vacanze al fitness o al gossip tra cantanti, sportivi, attori e … politici: permettetemi di scrivere ad esempio come il nobilissimo Corriere si sia “cairizzato”), e il “molto” ormai traboccante, incontrollabile, dei social media, prima fonte di informazione e di disinformazione, di fake news e di pubblicità in sordina.

Ovviamente, quando si discute di informazione (per dirla con Gramsci: parola composta da “in” e da “formazione”, termine sul quale il grande intellettuale – e giornalista – poneva l’accento), ci si imbatte in infiniti momenti: dalla scuola alla famiglia, dai partiti ai media.

Qui, a riassumere tutto, c’è di mezzo il degrado culturale in un circolo vizioso che imprigiona un paese che ha smarrito valori e memoria. Chi resiste è isolato e tante virtuose esperienze di minoranze virtuose raramente riescono a comunicare. La “rete” non sempre funziona.

Oreste Pivetta



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