13 dicembre 2017

NON SARÀ UN DORSO DI CRONACA A SALVARE L’INFORMAZIONE

Il Corriere della Sera a Torino: quando troppo entusiasmo fa male


Di MiTo, l’ipotetica alleanza tra Milano e Torino idealizzata qualche decennio fa, alleanza che avrebbe dovuto generare un’avveniristica conurbazione lungo l’asse ferroviario, sono rimasti l’Alfa Romeo Mito e il prestigioso festival musicale d’autunno. MiTo si è risolto per lo più nel suo contrario, se non ricordo male. Ultimo clamoroso episodio, emblematico si direbbe, lo scontro a proposito di un banale salone dei libri, scontro che si sarebbe potuto risolvere con eleganza. Francamente le rivalità cittadine non mi appassionano. Sono rimasto ancorato al “Triangolo industriale”, Milano-Genova-Torino, quando una semplice metafora geometrica dava il senso del lavoro, della produzione, del progresso e della collaborazione.

pivetta41FBMi piacerebbe condividere l’entusiasmo di Marco Garzonio, in parte lo condivido: nel disastro dei giornali italiani ogni nuova iniziativa la si dovrebbe accogliere con soddisfazione. Pagine di cronaca significano la nascita di una redazione locale e quindi nuovi posti di lavoro (quanti? a quali condizioni contrattuali? giovani freelance promossi collaboratori e pensionati riciclati collaboratori? quanto sopravvivrà invece la redazione torinese di Repubblica?), significano un contentino per la categoria dei giornalisti, travolta da una crisi devastante.

Dubito assai che un dorso di cronaca torinese del Corriere possa significare la “rivincita” di Milano, rivincita che starebbe addirittura “delineando una nuova mappa del potere dell’informazione, con ricadute politiche alla vigilia di una tornata elettorale importante”. Dubito intanto perché non mi piace l’idea in sé di rivincita, che mi fa pensare a Barbarossa e alla battaglia di Legnano piuttosto che a un paese che dovrebbe vivere alla luce di un progetto condiviso (qui – sia chiaro – la responsabilità è della politica che non è in grado di esprimere nulla), costruendo una comunità solidale.

Dubito anche perché nuovi numeri si sono aggiunti a colorire di nero sempre più nero il disastro cui accennavo prima, disastro che rappresenterebbe l’autentico campo di battaglia per un’imprenditoria dinamica, seria, responsabile, in corsa con i tempi. I numeri dicono di un calo dei lettori di quotidiani nel decennio 2007-2016 pari al ventisette per cento secondo il Censis (indagine a campione ovviamente, come l’ultima che dice che solo un italiano su tre legge un giornale), del dimezzamento delle copie vendute nello stesso periodo (da sei milioni a tre milioni giornaliere, secondo i calcoli di Ads) con un ulteriore peggioramento nell’anno in corso e con una discesa più evidente per le grandi testate (ormai Corriere e Repubblica faticano a tenere quota duecentomila). Non aggiungo nulla circa le condizioni cui sono sottoposti i nuovi e giovani giornalisti (trascurando evidentemente i cosiddetti garantiti che appartengono a un’epoca residuale), quando il precariato (oggi il sessanta per cento dei giornalisti appartiene al mondo del lavoro autonomo) scavalca qualsiasi norma.

Le cause sono tante e diverse: in ordine sparso internet, degrado della politica, economia per anni sull’orlo del fallimento, errate scelte editoriali e industriali… Come si risponde? Tagliando le redazioni e precarizzando, affidando i giornali agli uffici marketing (ma il peso economico della pubblicità è calato nei primi dieci mesi del 2017 del nove per cento), deprimendo il valore dell’informazione, inseguendo modelli “popolari” (quotidiani zeppi di attori e di attrici, di creme di bellezza e di cure dimagranti, alla stregua di qualsiasi rotocalco), persino barando sulle vendite.

Non credo che un dorso di cronaca possa imporre una svolta. Credo invece che Milano, presunta capitale dell’informazione, della comunicazione, dell’editoria, dovrebbe affrontare la crisi o, se bisogna dire così, giocare la carta della rivincita (preferirei si usasse il termine “competizione”), rifiutando di adagiarsi sulla beneficenza degli aiuti statali e degli istituti di previdenza (quanto sono costati pensionamenti anticipati, cassa integrazione, contratti di solidarietà concessi al Corriere o al Sole24Ore?), rilanciando e investendo (anche in qualità) per adeguarsi alla modernità. Non mi sembra che gli editori italiani ci stiano provando. O che il sistema milanese dei media ci stia provando. Se questo è il quadro, duemila copie in più a Torino non valgono neppure un’aspirina.

Oreste Pivetta



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