10 ottobre 2017

PERIFERIE E LAVORO

Guardiamo al locale, fino ai “periferizzati”


Non spariamo sul Jobs Act. L’Ocse a fasi alterne, l’Europa sempre (Marianne Thyssen, belga, commissaria per l’occupazione), dicono che va bene e che occorre attuarne, dopo la licenziabilità più facile, anche le Politiche attive; giocare il secondo tempo della partita; accompagnare giovani, donne e 50enni a trovare e cambiare lavoro, che spesso significa uscire dalla precarietà e dal nero.

04bizzotto33FBIl Jobs Act prevede anche una ben strutturata Agenzia nazionale per le Politiche attive – ANPAL. Di più. Accanto, c’è una riforma delle Camere di commercio che chiede alle imprese di contribuire alle Politiche attive perché, senza di loro, Centri per l’impiego e Agenzie del lavoro possono fare poco. E poi, se non sappiamo cosa serve alle imprese, cosa diciamo alle famiglie, alle scuole, ai ragazzi? Come indirizziamo i Centri di formazione professionale? Tant’è.

La Germania investe dieci volte più di noi nel sostegno al dialogo tra domanda delle imprese e offerta di lavoro. Dieci volte di più non è una differenza. È uno scandalo. Ma forse noi spendiamo di più in strutture e stipendi, tra pubblico e sue articolazioni, onlus e affini. Doppio scandalo.

Da Bologna un segnale che ripropone un interrogativo. Vale anche per Milano. L’arcivescovo Zuppi e il sindaco Merola promuovono l’iniziativa Insieme per il lavoro per giovani e over 45enni inoccupati o disoccupati, per “costruire percorsi di avviamento al lavoro affiancati anche da esperimenti di microcredito per l’autoimpiego” (Dario Di Vico sul Corriere della Sera del 6 ottobre 2017). Pronti, via: il Comune mette 10 milioni e 4 la Chiesa locale. Di positivo c’è che dietro il duo Zuppi-Merola ci sono tutti, sindacati e imprenditori compresi. E l’interrogativo? In un video il vescovo dice: “Mettiti in contatto con noi!”.

Ecco, va bene, ma non ricominciamo sempre daccapo. Al lavoro (all’economia) servono strutture e iniziative istituzionali, convergenti, che diano riferimenti stabili, con una vita e uno sviluppo propri, ben visibili, utilizzabili e apprezzabili da cittadini che possano esprimere un grado di soddisfazione. È troppo?

Per convincerci che fare Penelope non va bene, diamo un’occhiata su internet ai Centri per l’impiego di Bologna città metropolitana: sono sette, aperti a orari ridotti (mancherà il personale). Non basta. Sono affiancati da cinque Sportelli comunali per il lavoro. Questi però, tranne uno, “non operano più in rete con i Centri per l’impiego” dal 2016. Non sarebbe stato meglio che Zuppi e Merola guardassero a queste realtà e cercassero (con la Regione e il Governo, o contro) di trovare la quadra e unire le forze (i molti soldi che girano, le risorse umane, i finanziamenti europei certi a fronte di progetti seri), creando una realtà istituzionale di territorio ben visibile, con tutti dentro?

Milano è un passo avanti, perché ha fatto da un decennio le Agenzie Formazione Orientamento Lavoro (una in città e cinque nel contado), che mirano a un’unica AFOL metropolitana. Ha investito, un po’ a spanne, 2 miliardi e messo a sistema i Centri per l’impiego, quelli di formazione professionale e le strutture che hanno accompagnato la trasformazione industriale, sul finire della fabbrica fordista, con i suoi operai a decine di migliaia, tutti i giorni, in bici o in pullman, con le loro schisciette. Poi Milano s’è fermata. E adesso è messa peggio di Brescia, che un’indagine sulle esigenze delle imprese l’ha fatta.

A Sala, che ha davanti una prateria per il suo parlar chiaro, diciamo: Milano si regge sul capitale umano (qui siamo leader in Europa, secondo l’Ocse); prenda in mano l’AFOL, l’Agenzia metropolitana del lavoro, ne completi il percorso, parli con l’ANPAL, la Regione e i sindaci del contado, la riformi, la cambi, chiami il privato, le imprese e i sindacati a contribuirvi e la rilanci; non butti via una bella storia e due miliardi.

E chieda per prima cosa all’AFOL di creare un sistema visibile di Sportelli lavoro nelle periferie del Comune di Milano. Nel contado ci sono. Completi così il suo occuparsi delle periferie che condividiamo. È un modo di fare giustizia, parità minima di chance. Le renderà onore.

Nelle periferie vecchie e nuove, materiali e culturali, il lavoro e le attività libere e creative che verranno e che andranno organizzate, sono troppo importanti per il reddito, la libertà e la dignità personale e delle famiglie. Sportelli come luoghi di relazioni, ricerca e dialogo che interessino imprese, Partite iva, lavoratori e giovani. Che prefigurino il lavoro che verrà, di squadra, di gruppo, anche solidale, a rete, non solo individuale e piramidale.

Serve, s’è detto, un tavolo tra le parti, “un intervento locale incisivo e penetrante” (creativo, attraente) e un mecenatismo meneghino del lavoro, per accompagnare, illuminare, mostrare segni di speranza, come faceva don Bosco. Produrrebbero di certo molta più comprensione e più occupazione. I cittadini “periferizzati” sono parte di noi.

Ora, chiediamo -– con fiducia e rispetto – all’arcivescovo di Milano Mario Delpini di fare il percorso inverso dei bolognesi: dare il buon esempio; far confluire (e pesare) la meritoria esperienza del Fondo “Diamo Lavoro” della diocesi di Milano, che ha alla base il decisivo invito alle imprese a “scendere in campo”, in un’unica Istituzione metropolitana aperta, partecipata, riconosciuta e frequentata da tutti. C’è una bella vigna. Mancano operai.

Francesco Bizzotto



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali




Ultimi commenti