26 settembre 2017

LA NOTTE DEI RICERCATORI: FORMAZIONE SENZA FINE?

Rivedere contratti e stipendi, perché la ricerca è lavoro


Torna il 29 settembre la Notte dei Ricercatori, l’evento con cui duecentotrenta stati europei e cinquantadue città italiane – tra cui Milano – celebrano il valore della ricerca e della scienza per la società. Eppure, non esiste un dato che non restituisca una fotografia scoraggiante per chi vive di ricerca nel nostro Paese. La spesa, innanzitutto: siamo al quattordicesimo posto in investimenti, con 102 euro per abitante nel settore universitario, ben al di sotto della Germania (186), di Regno Unito (173) e Francia (148), per citarne solo alcuni (dati Eurostat al 2015).

02gaiaschi31FBL’esodo dei dottori di ricerca all’estero non accenna a diminuire: formiamo capitale umano eccellente ma lo regaliamo agli altri Paesi, che lo utilizzano per fare innovazione, produrre ricchezza e quindi lavoro. Una ricerca di qualche anno firmata da Altritalie dà la cifra del fenomeno visto da oltre confine: il 23% di chi vive all’estero dal 2000 è ricercatore o professore universitario. Come dire che quasi uno su quattro di chi oggi se ne va lavora nel mondo della ricerca.

Numeri enormi, che trovano la loro ragion d’essere nella drastica riduzione del personale docente e ricercatore negli atenei italiani, tale da non riuscire a soddisfare la domanda di insegnamento se non ricorrendo ai docenti a contratto, presi cioè da fuori. I professori che vanno in pensione – circa 1500 l’anno negli ultimi anni – non sono sostituiti da altrettanti giovani assunti.

Il piano straordinario 2015 per gli RTD – i ricercatori a tempo determinato introdotti con la riforma Gelmini – si è tradotto nell’assunzione di circa mille unità in più, portando il numero di RTD a poco meno di 5.900: ancora insufficiente per rispondere alla naturale dinamica demografica della popolazione accademica.

E ancora, gli scarsi investimenti in R&D da parte del settore privato si traducono in una bassa propensione, da parte delle aziende, ad assumere Ph.D. (dottori di ricerca) e, di conseguenza, in una scarsa valorizzazione del dottorato di ricerca nel mercato del lavoro. Che dire infine degli stipendi: un dottorando prende 1.000 euro netti, una cifra che nelle grandi città del Centro-Nord è insostenibile, un assegnista di ricerca 1.500 euro. Non sono contemplate tredicesime, né buoni pasto, né benefit aziendali. Sono i più bassi d’Europa: basta dare un’occhiata agli annunci di lavoro in Regno Unito per capire che un post-doc viene pagato dai 3.000 alle 4.000 euro lordi.

Sul tema remunerazione circola online una petizione indirizzata alla ministra Valeria Fedeli (qui il link) per portare le borse di dottorato dagli attuali 1.000 a 1.200 euro al mese. Forti di 4.000 firme già raccolte e dell’appoggio di alcuni euro-deputati, la proposta verrà presentata il 28 settembre alla Camera. Una mobilitazione, quella dell’aumento dello stipendio dei dottorandi, che parte in realtà dalla Statale di Milano dove già da un anno gli iscritti percepiscono (con poche eccezioni rappresentate dagli iscritti ai dottorati in consorzio prima del 2017) 1.200 euro. Si tratta di un obiettivo che resta ancora al di sotto della media UE, dove lo stipendio di un dottorando oscilla dai 1.500 euro di Spagna e Germania ai 2.900 della Danimarca, e il cui raggiungimento appare pertanto non più rinviabile da parte della politica.

Solo di recente il Parlamento ha approvato l’estensione dell’indennità di disoccupazione ai dottori di ricerca e agli assegnisti, dopo essere stati esclusi in un primo momento dalla cosiddetta Discol, l’ammortizzatore pensato dal Jobs Act per i collaboratori. All’epoca, a spiegare i motivi di tale esclusione era stato il presidente dell’Inps, Tito Boeri: poiché non sono tecnicamente regolati da un contratto di lavoro – trattasi di contratti di formazione alla ricerca esenti Irpef – dottorandi, assegnisti e specializzandi non hanno diritto alla disoccupazione.

Al di là delle questioni tecniche, in quelle parole vi è un assunto implicito: sono figure in formazione. Ma se questo può essere vero per dottorandi e specializzandi – che conseguono un titolo di studio – non lo è, nei fatti, per gli assegnisti. Il post-doc può infatti rimanere tale anche per molti anni a furia di contratti rinnovati annualmente o ogni due anni al massimo: per un totale di sei per chi è arrivato dopo l’implementazione della riforma Gelmini, ben di più per chi ha cominciato prima.

Risultato: si tratta di una popolazione numerosa (quasi 14 mila gli assegnisti negli atenei italiani secondo i dati Miur), con un’età media elevata – tra i trenta e i quaranta – per la quale risulta imbarazzante, o quanto meno fuori dalla realtà, non parlare di “lavoro”.

A colpi di “publish or perish” (pubblica o muori), l’assegnista è infatti chiamato a rispettare criteri fino a pochi anni fa impensabili in termini di pubblicazioni scientifiche per poter sopravvivere ed evitare il temuto “drop-out”, la fuoriuscita, contribuendo al contempo e in maniera decisiva agli indici di produttività di Dipartimento, necessari per ottenere i finanziamenti ministeriali. Può essere un post-doc 35enne, magari con alle spalle 4 anni di dottorato e 4 anni di assegno, considerato ancora in formazione?

La risposta è no. La pressione esercitata su questa fetta di ricercatori precari è tale però che la tendenza al ripiegamento individuale è fortissima e la mobilitazione più difficile rispetto a quella dei dottorandi. Nonostante remunerazioni eccessivamente basse, nonostante le frequenti interruzioni di stipendio tra un contratto e l’altro. Sta succedendo quello che è accaduto ai piloti di Ryan Air: non uno sciopero ma un’emorragia, in questo caso lenta e progressiva. Verso lidi migliori al di là dei confini nazionali. Secondo la dura legge di mercato.

Camilla Gaiaschi



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