5 luglio 2017

STAMPA E POLITICA, MORIRE INSIEME

Il ruolo dei giornali, il mestiere di giornalista


Vorrei qui esprimere due o tre considerazioni sul giornalismo d’oggi e in particolare su quelle pagine che narrano la vita di una grande città (Milano, in primo luogo, per quanto mi riguarda), ma non riesco a trattenermi dal ricordare qualcosa del passato, perché sono stato raggiunto dalla notizia della morte di un collega, Ibio Paolucci.

08pivetta25FBAveva novantuno anni, apparteneva davvero a un’altra era della comunicazione e dell’informazione, un’era che definirei della carta e del piombo. Quando scrivo “piombo” mi riferisco ai sistemi tipografici immutati dall’invenzione di Gutenberg, ma non posso dimenticare il piombo vero che s’univa alla dinamite o al tritolo delle bombe.

Paolucci faceva parte di quella pattuglia di giornalisti che vissero e descrissero, talvolta sotto minaccia pesantissima, il terrorismo da piazza Fontana in poi. Qualche nome? Camilla Cederna, Corrado Stajano, Franco Giannantoni, Marco Nozza, Marco Fini, Giorgio Bocca … . Vado a memoria. Quanti ne dimentico … dimentico per esempio quei cronisti che seppero contestare in conferenza stampa un questore milanese che, dopo la bomba alla Banca dell’Agricoltura, aveva additato, sul mandato del Ministero dell’Interno, come colpevoli gli anarchici e che aveva indicato come esecutore un ballerino e come regista un ferroviere, Valpreda e Pinelli.

Giornalisti che non rinunciarono a esercitare lo spirito d’osservazione, il loro senso critico, la loro esperienza. Non era un giornalismo da interviste sotto dettatura, da scopiazzatura di comunicati ufficiali o di atti giudiziari consegnati da qualche amico pratico di Palazzo di Giustizia. Giornalisti capaci di tenere “la schiena dritta”, come aveva raccomandato con un filo di buona retorica Carlo Azeglio Ciampi. Giornalisti, aggiungo, non inerti, forti di una propria cultura, pronti a interloquire, criticare, rivelare contraddizioni o ambiguità di una storia o di un personaggio.

Il giornalismo italiano d’oggi, sconvolto dall’irrompere nelle pratica quotidiana delle nuove tecnologie, prostrato da una inedita crisi di sistema, vittima tra le prime del degrado politico e culturale di questo Paese, qualcosa ha perso di quel temperamento e non voglio dire quanto, perdendo anche, semplicemente, copie. Chi cercasse la concretezza dei numeri potrebbe leggere il recentissimo Il crepuscolo dei media, appena pubblicato da Laterza, scritto da Vittorio Meloni, che mette in fila dati paurosi più che solo preoccupanti, esemplificazione di un’agonia al di qua appena della morte.

Per esempio la caduta delle copie vendute tra 2007 e 2016: da 5,8 milioni di copie a tre milioni (un terzo del venduto negli anni settanta-ottanta), con i primi giornali (Corriere e Repubblica) che non arrivano alle duecentomila copie, la scomparsa nello stesso periodo del 26 per cento dei lettori, la prospettiva poco rassicurante disegnata da una penetrazione della carta stampata tra i giovani dai 14 ai 29 anni che sfiora appena il 30 per cento … In compenso, la presenza di internet via banda larga è assai modesta rispetto all’esperienza di altri paesi europei. Senza dimenticare che, secondo una inchiesta condotta dal compianto Tullio De Mauro, l’80 per cento degli italiani in età di lavoro non possiede “effettive capacità di lettura, comprensione e calcolo”: al venti per cento che resta spetterà l’onere di salvaguardare il valore della lettura.

Si possono elencare una infinità di argomenti a spiegazione di questi dati e in genere succede così, cominciando naturalmente dalla citata grande rivoluzione tecnologica mondiale, senza mai arrivare però a quell’infimo particolare che corrisponde alla “qualità dei giornali”, un tabù: pare di assistere anzi a un gagliarda corsa al ribasso, con l’idea di catturare il “consumatore”, assecondandolo nel peggiore dei suoi gusti, rinunciando a contribuire alla “formazione” del pubblico (come capitò in tv nella rincorsa della Rai a Mediaset, con esiti devastanti).

Gramsci, in carcere, fissava la responsabilità formativa al primo posto tra i compiti del giornalista. Lo ha ripetuto Papa Francesco: non sottomettere la professione alle logiche degli interessi di parte, economici o politici, far crescere la dimensione sociale dell’uomo, favorire la costruzione di una vera cittadinanza. Gramsci reclamava anche “giornalisti tecnicamente preparati a comprendere ed analizzare la vita organica di una grande città”. Un buon capocronista, secondo Gramsci, avrebbe dovuto possedere quella competenza e quella conoscenza che gli potrebbero consentire di diventare “podestà” (altri tempi!).

Chissà se possano avere un senso ancora questi richiami. Per rimanere tra noi, troppe volte le cronache cittadine appaiono in difetto e non per colpa dei giornalisti soltanto. Non aiuta chi in politica o nelle amministrazioni ostenta ostilità a ogni contestazione (quanti “maestri”, grandi o piccoli, l’ultimo Trump che prende a cazzotti la Cnn), addestrato a rispondere a ogni critica con una accusa di lesa maestà, di tradimento. Al punto che, per evitarla, i temi centrali di un inserto milanese (domenica 2 luglio) diventano il morbillo al Politecnico (due casi) e lo statuto di fondazione del Milan. La responsabilità è anche di chi decide strategie editoriali, chi spera di colmare i vuoti “allegando” libri, cosmetici, dvd, viaggi e cure dimagranti, conducendo anche la politica oltre la soglia dell’intrattenimento.

Il silenzio critico era pratica d’anni bui: si è riconvertita nell’attuale vociare continuo. La via sarebbe conoscere e criticare, ma conoscere chiede fatica e investimento, criticare pretende la conoscenza. Non basterà, ma qualcosa si salverà nella coscienza democratica di una comunità e soprattutto di una “comunità politica”.

Oreste Pivetta



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali




Ultimi commenti