13 giugno 2017

NANNI ANSELMI, UN ANNO DOPO

Ricordando le sue riflessioni


L’8 giugno del 2016 ci lasciava Nanni Anselmi, animatore e leader del civismo politico democratico e progressista a Milano. Era anche un amico carissimo, perché il lettore sappia che non posso essere distaccato in quel che scrivo e come mi riesca difficile distinguere quel che pensava lui e quel che penso io.

04boitani22FBNel primo anniversario della sua scomparsa un gruppo di amici ha voluto ricordarlo in un incontro pubblico, cui hanno contribuito con riflessioni profonde, commosse e anche spiazzanti, Lucia Castellano, don Walter Magnoni, Valerio Onida e Giuliano Pisapia. A me è toccato di introdurre e coordinare il dibattito, cui hanno assistito in tanti e in prima fila i figli di Nanni, Lavinia e Jacopo. A loro abbiamo cercato di restituire un lato del loro papà che forse conoscevano meno e che, temo, aggiungerà qualcosa alla loro nostalgia per un uomo davvero unico. Le parole che seguono riassumono quanto ho detto nell’occasione.

Non dirò dell’azione politica di Nanni. Altri, più competenti di me, lo faranno benissimo. Voglio solo accennare a due questioni che mi sono sembrate centrali nel pensiero di Nanni, dentro e oltre il civismo: la democrazia e la disuguaglianza. Ci sono tante citazioni in quel che segue (forse troppe), perché con Nanni parlavamo di quanto venivamo leggendo o avevamo letto in passato. Nanni Anselmi non aveva solo intuizione e passione politica ma anche molte curiosità e cultura fina, dissimulata dall’ironia e perciò tanto più godibile.

Democrazia, dibattito pubblico e comunità Secondo il politologo britannico Colin Crouch (Postdemocrazia, 2000) “anche se le elezioni continueranno a svolgersi e a condizionare i governi, il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi”, mentre la massa dei cittadini “svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve”. L’“entropia della democrazia” è fatta anche di questo.

La corruzione è un fattore che certo accelera e aggrava altri fattori (che esistono indipendentemente), quali la personalizzazione della politica e la decadenza della discussione politica seria. L’abusata (e per me insopportabile) espressione “ci metto la faccia” tende sempre più a sostituire il dibattito pubblico, ad assorbirlo nel solo momento elettorale, a trasformare la democrazia da deliberativa in “recitativa” (l’espressione è dello storico Emilio Gentile). Senza dibattito pubblico, senza la possibilità di parlare e ascoltare le alternative, le decisioni sono inevitabilmente pre-confezionate. La democrazia è avvilita non tanto e non solo per assenza di partecipazione, ma per assenza di informazione, di argomentazione, di contraddittorio.

Secondo il filosofo americano John Rawls, “il concetto fondamentale e definitivo di una democrazia deliberativa è quello della democrazia stessa”. Ma aggiungeva subito dopo: “Quando i cittadini deliberano, si scambiano le proprie opinioni, discutono le loro rispettive idee sulle principali questioni politiche e pubbliche”. Il ruolo dell’interazione e della discussione per la decisione (ci ricorda il grande filosofo ed economista Amartya Sen) era riconosciuto già nella Costituzione dei 17 articoli, introdotta in Giappone nel 604 (!) dal principe buddista Shotoku: “Le decisioni su questioni importanti non devono essere prese da una sola persona. Devono invece essere discusse da molte persone”.

L’idea di democrazia deliberativa che aveva Nanni aveva radici in queste riflessioni e convinzioni, di cui abbiamo discusso tante volte a casa sua o seduti (rigorosamente all’ombra) sulla spiaggia, dove il suo respiro, reso faticoso dal male, trovava un po’ di sollievo. Nanni pensava che il ritorno dalla democrazia recitativa a quella deliberativa passasse per un nuovo riconoscimento della “comunità” quale soggetto socialmente rilevante.

Nel documento Il Paese che vogliamo – scritto con Nanni e approvato dagli organi dirigenti del Movimento Milano Civica – si legge: “Un valore da molti anni trascurato è quello della comunità. L’ideologia politica da tempo prevalente ha dato per scontato che ‘gli individui precedono la società’ (qualche volta arrivando addirittura a negare che la società sia un concetto dotato di senso) e che la politica debba limitarsi a massimizzare la somma totale dei redditi (e/o delle ricchezze) individuali, trascurando la loro distribuzione, nonché la promozione di esperienze, istituzioni e attività economiche e culturali che promanano dalle comunità. Riconoscere tale verità significa percorrere il primo passo verso quella comunità di valori condivisi e quella coscienza associativa, base del vivere civile a cui noi aspiriamo”.

Il ruolo del dibattito pubblico veniva applicato, in altra parte del documento, con queste parole: “La partecipazione dei cittadini è decisiva, in particolare, per porre su basi condivise e sostenibili le decisioni riguardanti le opere pubbliche che impattano sul territorio e – soprattutto nelle fasi di realizzazione – sullo svolgimento delle normali attività dei cittadini”. Non solo di idee astratte si occupava Nanni.

Disuguaglianza, dignità e crescita economica Anche sul tema della disuguaglianza le riflessioni, con Nanni, si muovevano su linee in gran parte indicate dalle nostre comuni letture. Così dall’Amartya Sen di Identità e violenza (2006), veniva l’idea che le privazioni e le vite divise non sono tanto il frutto avvelenato della globalizzazione, quanto piuttosto dei “fallimenti di assetti sociali, politici ed economici che sono assolutamente contingenti e non inevitabili compagni di strada dell’avvicinamento globale”. Cioè la politica non può dare le colpe all’inevitabile bruttura della globalizzazione ma deve trovare la via per una globalizzazione che funziona e non produce diseguaglianze eccessive.

Nel Tony Atkinson di Disuguaglianza. Cosa si può fare? (2015) abbiamo trovato conferma al convincimento che l’uguaglianza delle opportunità (tipica del liberalismo classico) è attraente, “ma se ci sta a cuore l’uguaglianza delle opportunità di domani, dobbiamo essere preoccupati della disuguaglianza di esiti di oggi”, perché “gli esiti ex post di oggi danno forma al campo di gioco ex ante di domani: chi beneficia della disuguaglianza di esiti di oggi può trasmettere un vantaggio iniquo ai propri figli domani”.

Dal Piketty del Capitale nel XXI secolo (2013) abbiamo capito che “il processo di accumulazione e concentrazione dei patrimoni, in un mondo caratterizzato da crescita debole e da un rendimento elevato del capitale, costituisce la minaccia numero uno per la dinamica della distribuzione delle ricchezze a lunghissimo termine”.

Infine, dalla tradizione di pensiero Keynesiana (e da molte robuste ricerche empiriche di oggi) abbiamo ricavato che la disuguaglianza fa anche male alla crescita e alla stabilità economica. Abbiamo vissuto l’età illusa della trickle-down society (la società della percolazione), e l’illusione era che la crescita del reddito e della ricchezza della parte più ricca della popolazione avrebbe fatto crescere tutta la società e sarebbe “gocciolata giù” fino alla parte più povera. Ma ormai i guasti di questa illusione sono squadernati.

La crisi finanziaria scoppiata nel 2007-2008 è collegata più di quanto si credesse inizialmente con l’eccessiva crescita delle disuguaglianze, che spingono i poveri e soprattutto gli appartenenti ai ceti medi impoveriti a indebitarsi troppo. Per non parlare delle grame prospettive economiche per i nostri nipoti. È bello sapere che riflessioni come quelle che Nanni andava facendo siano oggi espresse con tanta chiarezza da Romano Prodi (Il piano inclinato, 2017).

A proposito di disuguaglianze, nel già citato documento Il Paese che vogliamo si trova scritto: “La disuguaglianza di reddito e ricchezza è ‘buona’, se moderata e premia il merito acquisito con lo studio e il lavoro (a cui tutti siano effettivamente in grado di accedere, come detta la nostra Costituzione) e se fornisce gli incentivi giusti allo sforzo creativo e innovativo, mentre è ‘cattiva’ se eccessiva e nasce dalla rendite patrimoniali familiari, dagli eccessi della finanza e dal culto delle ‘superstars’. Una disuguaglianza che non solo è dannosa per la crescita di lungo periodo ma genera anche instabilità economica e sociale, eccesso di indebitamento, espansione della povertà relativa (quando non assoluta), aumento dell’esclusione sociale e di altre correlate ‘illibertà’ (Sen).

La disuguaglianza può paralizzare il sistema politico e la crescita di un Paese. Per combatterla non basta un sistema di imposizione fiscale progressivo su redditi e patrimoni (Stiglitz), capace di minimizzare continuamente l’evasione e l’elusione. Occorre anche una politica che attivamente garantisca l’accesso equo a beni e servizi che costruiscono ‘capacità’ (come l’istruzione, l’accesso alle risorse idriche e l’assistenza sanitaria) di uguale qualità per tutti, indipendentemente dal reddito familiare, dal quartiere o dalla località in cui si abita”.

Di questi fili e di molti altri era fatta la trama del pensiero politico di Nanni Anselmi. Da quando non c’è più ci manca moltissimo. Perché era, semplicemente, insostituibile.

Andrea Boitani



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