3 maggio 2017

PRIMO MAGGIO TRA ANACRONISMI, PROTESTE E SPERANZE

Il lavoro è in crisi ma la politica sembra impotente


All’indomani del Primo Maggio, trascorso in tutta Italia tra festeggiamenti, proclami istituzionali, ma anche proteste e polemiche, non si può rinunciare a una riflessione non solo sull’attualità o meno di questa ricorrenza annuale, ma soprattutto sul significato stesso del “lavoro”, celebrato dal primo Articolo della nostra Costituzione.

05dipaola16FB_Contrariamente a quanto l’etimologia lascerebbe intendere (in latino labor significa “sforzo, fatica, pena, disgrazia”) il lavoro non è (o almeno non dovrebbe essere) soltanto un’incombenza quotidiana che ci trascina fuori di casa ogni mattina e ci sequestra per otto ore alla nostra vita, sacrificio che accettiamo solo in virtù della ricompensa che rimpingua (magari neanche troppo) le nostre tasche alla fine del mese.

Almeno in linea teorica, il lavoro dovrebbe essere innanzitutto lo strumento con cui l’individuo afferma la propria presenza nel mondo, fissa il proprio ruolo all’interno della società e si assume una responsabilità nei confronti dei propri simili. Indipendentemente dal tipo di mansione e dalla remunerazione, è (o dovrebbe essere) un mezzo per valorizzare l’essere umano e l’“utilità” sociale derivante dall’espressione delle sue capacità e/o inclinazioni. Rispetto al passato, parlare oggi di “mondo del lavoro” come se si trattasse di una dimensione a sé stante, separata dagli altri ambiti del vivere, è un inganno linguistico.

Precludere a un individuo l’accesso al primo, significa di fatto escluderlo dalla società e privarlo dei mezzi (morali e materiali) per realizzare se stesso, sognare, costruire il proprio presente e progettare il futuro. Significa mortificarlo impedendogli di portare a termine quel percorso di crescita che inizia con la prima infantile risposta al quesito “Cosa vuoi fare da grande?” e che, tra deviazioni, soste, ripensamenti e imprevisti, dovrebbe portarlo a una definizione stabile della propria identità. Perché se è vero che non sempre si ha la fortuna di identificarsi pienamente con la professione che si svolge, è innegabile che essa condiziona profondamente tutti gli altri aspetti della propria vita interiore, sociale e familiare.

La celebrazione del Primo Maggio fu istituita dapprima negli Stati Uniti e in Canada, come simbolo delle rivendicazioni degli operai che, alla fine dell’Ottocento, lottavano per avere diritti e condizioni di lavoro migliori; in seguito fu istituita ufficialmente (in Francia nel 1889, in Italia nel 1891) per festeggiare l’ottenuta riduzione della giornata lavorativa a 8 ore, in modo che ne restassero altre 8 per lo svago e altrettante per il riposo. Insomma: il Primo Maggio si festeggiava il raggiunto equilibrio tra dimensione pubblica e privata, tra necessario adempimento del proprio dovere e legittimo godimento delle opportunità che a esso dovevano fare da contropartita. La Festa dei Lavoratori doveva essere la festa degli “uomini” completi, orgogliosi e (in certa misura) liberi.

Cosa resta oggi di questa concezione hegeliana del lavoro? In effetti ben poco e lo dimostra la trasformazione della festa del Primo Maggio in occasione per manifestare contro un sistema occupazionale che toglie dignità a lavoratori (o aspiranti tali). Precarietà, voucher (fino a poche settimane fa), contratti a termine e meccanismo ingannevole dell’apprendistato (che spesso rimane fine a se stesso) minano qualsiasi aspirazione alla completezza, all’appagamento, alla realizzazione di sé. Accanto a coloro che scendono in piazza per protestare e pretendere di vedersi riconosciuto il diritto di “doversi alzare ogni mattina per trascinarsi fuori di casa e trascorrere otto ore a costruirsi il proprio ruolo nel mondo”, ci sono quanti rifiutano di lavorare nel giorno festivo e proclamano il “No shopping day” per riaffermare una dignità che (forse) non è solo la liberalizzazione degli orari di esercizio ad avergli sottratto. Nel mezzo restano tutti coloro (i cosiddetti “Neet

”) che non rientrano in nessuna “categoria”, non sono né lavoratori né disoccupati, e dunque non hanno nulla per cui protestare o per cui festeggiare; semplicemente hanno rinunciato a questo presente e si mantengono in un limbo di inesistenza, in attesa di migliori prospettive future.

Chiara Di Paola



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