22 marzo 2017

NUOVE OFFICINE A MILANO

Urgenza e limiti del far politica dal basso


Saranno l’espressione territoriale di Campo Progressista, il progetto politico di Giuliano Pisapia: l’obiettivo delle Officine delle idee – lanciate in questi giorni – è lavorare su contenuti e proposte, in modo libero, intorno a tutto ciò che davvero interessa e coinvolge la comunità e i singoli, dal Nord al Sud Italia. Si tratta in effetti di un “rilancio”, perché il nome Officine è lo stesso dei laboratori di programma che si attivarono nella campagna elettorale milanese del 2011. Un ritorno, questa volta su scala nazionale, che conserva e supera il modello passato, secondo gli estimatori; per i critici un ennesimo appello alla partecipazione che finirà nel nulla.

03poli11FBEppure, almeno a Milano, le Officine lasciano intravedere una nota di freschezza nello scenario politico. Nemmeno si riesce a spiegare perché, dopo innumerevoli tavoli e gruppi di lavoro cittadini, questa formula di condivisione conservi un che di attrattivo e sembri ancora un po’ più vera delle altre. Un punto interrogativo riguarda l’inserimento delle Officine nel mezzo dei tanti “lavori in corso”. Occasione giusta, quindi, per un bilancio sullo stato di fatto della politica territoriale: come si collocherà Campo progressista in questo variegato universo metropolitano?

Più che di qualcosa di inedito, ben difficile da inventare, si avverte un’esigenza di sintesi. Una panoramica sulle realtà attive nei quartieri – dai partiti alle associazioni, dai comitati ai movimenti civici – porta infatti ad alcune constatazioni: tanti i soggetti, poche le persone, spesso impegnate in contemporanea su più fronti; tanti i problemi sul piatto, poche le soluzioni concrete; un’infinita frammentazione nel trattare gli stessi punti nevralgici, con differenze mai sostanziali, eppure spesso insanabili. Continuano a mancare, alla base, una visione comune e un dialogo tra le varie manifestazioni di impegno politico e civico.

Ci si dovrebbe chiedere, per prima cosa, perché le persone si allontanano dalla politica. Forse perché quasi sempre oscilla tra due estremi, senza riuscire in una mediazione; o generalizza il discorso fino alla completa astrazione dalla gente e dalla vita reale; o entra troppo nel particolare, si relega su questioni che vengono scandagliate fino allo sfinimento, senza peraltro arrivare il più delle volte a un risultato.

Se il primo estremo è spesso l’errore di vertici di partito e istituzionali, il secondo è invece il punto debole della rete territoriale, che perde così il contatto con il mondo al quale appartiene. Nei nove Municipi milanesi e nelle microaree al loro interno tale limite è molto evidente. Qualche anno fa, il principale ostacolo al fare sembrava essere la mancanza di “contenitori” in grado di accogliere la partecipazione dei singoli; oggi il panorama li vede moltiplicarsi a dismisura, i contenitori, senza che ciò si traduca in una maggiore partecipazione e concretezza d’azione.

Le stesse criticità – periferie, emergenza abitativa, lavoro, nuove povertà, integrazione – sono affrontate da più soggetti, parliamo sempre di centrosinistra, ma con scarsa volontà di vero scambio reciproco. La stessa sostanziale incomunicabilità riguarda le urgenze metropolitane e quelle circoscritte alle zone: se ne parla in più sedi, portando avanti – per canali paralleli – proposte e relazioni istituzionali. I diversi percorsi si incrociano, è inevitabile, ma più per caso che su un disegno condiviso. In ogni Municipio ci sono i circoli del PD, i gruppi di SinistraxMilano e quelli di Milano in Comune, le varie diramazioni di Sinistra Italiana; i movimenti civici, i comitati, le associazioni culturali e operanti nel sociale, le social street, le organizzazioni trasversali che lavorano per tematiche.

Non è che i contenitori siano privi di contenuti, anzi; il limite è l’approccio, sempre più esclusivo anziché inclusivo. A qualsiasi livello gli interventi non sono mai coordinati. L’ansia di fare, di veder prevalere un metodo, un’idea o una persona rispetto a un’altra finisce per diventare un ostacolo al conseguimento degli obiettivi, e l’inconcludenza distanzia ancora di più dalla politica chi già se ne sente poco coinvolto. Ma prima di portare avanti esigenze che coinvolgono la collettività, ogni soggetto di cittadinanza attiva dovrebbe periodicamente ridomandarsi quanto sia, all’atto pratico, rappresentativo delle necessità vere della comunità. Quanto può vantare linee preferenziali di dialogo tra i cittadini e le istituzioni?

La capacità di rappresentare non è conseguenza scontata di ogni forma di attivismo, implica responsabilità e “requisiti”. Un dato è incontestabile. Rispetto alla totalità dei milanesi, l’impegno politico è di pochissimi; perlopiù basato sul volontariato e non su un’investitura elettorale, porta a sviluppare interessi forti: intesi in senso positivo, come passione nel contribuire al bene comune, ma anche negativo, perché strada facendo può perdersi il contatto con il punto di partenza senza che si riesca a intravedere quello di arrivo.

L’associazionismo è una delle basi della politica “dal basso”, su ciò non si discute; per quanto un’associazione possa essere radicata sul territorio, avrà sempre però una visione di parte, e una rappresentatività limitata. Lo stesso vale per i comitati: quanti sono gli abitanti dei quartieri che davvero li delegano a condurre battaglie, a manifestare dissenso, a farsi interpreti dei bisogni comuni? Molti meno di quanto si pensi.

Più complesso è il discorso per circoli di partito e movimenti nati dalle liste elettorali, perché in questo caso una delega, almeno ideale, esiste: spesso un simile onere tuttavia si perde nei meandri della routine burocratica. Un’elevata percentuale di milanesi continua a manifestare un malessere individuale che nessuno, al momento, sembra in grado di intercettare con successo. Tante energie vengono investite dalla politica e dal civismo, troppo spesso in un’autoreferenzialità innegabile. Mentre lo scopo non dovrebbe essere quello di contare di più, ma di interpretare meglio i disagi e le speranze di tutti.

Tornando alla domanda iniziale, non è facile immaginare che cosa aspettarsi, all’interno di questo quadro, dalle Officine: se potrà nascere una rete, essere inaugurato un nuovo modello di partecipazione … . Pensando a Milano la prima cose che viene in mente è che potrebbero forse riuscire a mettere insieme persone alternative e complementari, anche quelle che partirebbero da zero, senza bagagli ingombranti. Nel programma si legge: «Le Officine delle idee non sono circoli o sezioni di partito. Ci interessano le idee e le persone che partecipano, a prescindere dalle differenti appartenenze. Sono aperte a tutti coloro che hanno a cuore la costruzione di un nuovo centrosinistra. Un percorso aperto e plurale». Uno strumento di dialogo e sintesi – forse – che possa contribuire a superare gli infiniti particolarismi. Anche quelli a fin di bene.

 

Eleonora Poli



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