31 gennaio 2017

LA CULTURA DEI CONCORSI CHE MANCA A MILANO

Per una nuova stagione di confronti e di riflessioni sulla città


La cultura dei concorsi è un corollario necessario della democrazia, è la declinazione della democrazia in materia di assegnazione dei mandati di progettazione. Ma il concorso funziona se garantisce, oltre alla parità di condizioni tra i partecipanti, anche la massima professionalità dei giudicanti, altrimenti è una lotteria. E, dal punto di vista dell’ente banditore, il concorso persegue il suo interesse soltanto se la massima professionalità dei giudicanti gli garantisce la scelta della soluzione migliore.

09caruso04FBLa cortese e circostanziata risposta del Presidente del Collegio di Milano Salvatore Carruba alla mia lettera dimostra la correttezza amministrativa del Collegio e, nel contempo, conferma pienamente la validità delle mie considerazioni: non sono state attivate le competenze necessarie per valutare la qualità delle proposte architettoniche proposte dai partecipanti al concorso.

Milano ha un grande bisogno della cultura dei concorsi. A parte gli edifici, piccoli e grandi, delle istituzioni pubbliche e dei servizi sociali da trasformare, rinnovare e sostituire, si pensi ai mille spazi pubblici da ripensare, che oggi sono vuoti irrisolti, soprattutto in periferia, ma anche nelle aree più centrali della città. Si pensi, per fare qualcuno degli esempi più centrali, all’area dell’antico Tombon di S. Marco, che è una disordinata sequenza di spazi utilizzati da privati. Oppure, si pensi a piazza S. Stefano, che è un brutto parcheggio.

O a piazza Diaz e via Marconi, con le aiuole recintate e i cipressini che hanno ridotto a un retro la prospettiva dal Duomo verso la torre Martini. O la tristezza del parcheggio della stazione Pagano della M1. E i grandi immobili e le aree abbandonate, sottoutilizzate o destinate ad altri usi, come le caserme. E i tanti immobili delle vecchie scuole comunali da ripensare e trasformare (la progettazione di alcuni dei quali nella passata legislatura è stata affidata con appalti integrati, che hanno escluso ogni qualità) e, infine, gli scali ferroviari.

Su questi ultimi, pur di evitare un vero confronto pubblico che coinvolga le risorse intellettuali e professionali della città, il Comune è arrivato a patrocinare un workshop – con invito dei soliti noti – promosso e pagato dalla proprietà degli scali, il cui interesse è oggettivamente contrapposto a quello del Comune, come lo sono la pura valorizzazione immobiliare dei sedimi interessati rispetto all’interesse generale. Si può, e si deve, lavorare insieme tra Comune e FS alla formazione della soluzione migliore, ma dopo avere stabilito con la massima partecipazione le destinazioni e le quantità nell’interesse della città.

Spesso succede che i concorsi vengono impropriamente utilizzati per suggerire il programma, che la politica non è capace o non ha il coraggio di formulare. In altri paesi, come in Francia, i concorsi sono diventati invece metodo ordinario di assegnazione di tutti gli incarichi pubblici e, laddove la cultura dei concorsi è più consolidata, come nella Svizzera tedesca, anche i privati li adottano con successo. Sarebbe necessario un tour dei nostri amministratori – a cominciare dall’assessore Maran – a Zurigo, per conoscere la qualità degli interventi di trasformazione delle aree industriali e ferroviarie dismesse e le procedure adottate in quella città, che è una delle culle del capitalismo finanziario.

La progettazione, dai masterplan ai singoli edifici privati e alle infrastrutture, è guidata dalla città e assegnata attraverso concorsi. È anche per questo meccanismo insediativo pubblico-privato che a Zurigo è stato possibile promuovere le iniziative cooperative più avanzate di cohousing e di solidarietà sociale. A Basilea, ormai diversi anni fa, gli architetti hanno costretto le ferrovie federali a utilizzare il concorso di progettazione anziché le gare ad onorario, astenendosi in massa dalla partecipazione a queste ultime.

È chiaro, l’assenza del concorso come metodo ordinario dalla legislazione sugli appalti rende questa battaglia difficile. Gli orrendi appalti integrati sono stati sostituiti dagli affidamenti, ma, ad esempio, il combinato disposto tra i requisiti richiesti negli affidamenti e le categorie funzionali previste nelle nuove tariffe professionali è perverso: per partecipare alla gara per progettare un edificio per uffici, devi averne già progettati due negli ultimi anni; se invece negli stessi anni hai progettato tre edifici residenziali non puoi partecipare alla gara, anche se la difficoltà progettuale è stata certamente superiore. E cominciano ad essere banditi concorsi di progettazione generati dalla interpretazione più burocratica del codice degli appalti, per cui la partecipazione è subordinata alla soddisfazione di requisiti del genere di quelli appena citati, richiesti per gli affidamenti.

Dobbiamo ribaltare il ragionamento, perché la legge registra e istituzionalizza le istanze che nella società sono già maturate. Lo stesso Ordine degli Architetti è assente nella battaglia per i concorsi, o si esprime timidamente quando parla con le istituzioni. L’Ordine di Milano ha il grande merito di avere inventato la piattaforma “concorrimi”, che è un avanzato supporto per bandire concorsi, ma il suo enorme potenziale di rappresentazione di 12.500 professionisti non viene utilizzato per fare lobbismo e intervenire direttamente e con autorevolezza nell’arena politica per sostenere la cultura dei concorsi.

Eppure negli scorsi decenni a Milano ci sono state brevi stagioni concorsuali. L’assessore Gianni Verga promosse molti anni fa il concorso per sistemare le piazze milanesi, e anche MM lo fece nei luoghi interessati dai suoi cantieri. Lo stesso Verga, ai tempi di Albertini, promosse con successo “Abitare a Milano”, un sistema multiplo di concorsi per abitazioni sociali, che sono poi state realizzate. L’assessora De Cesaris ci ha provato nella passata legislatura con tre piccole gare (l’asilo, il centro civico e il cavalcavia Bussa), nell’area di Porta Nuova, con un esito non proprio felice.

A Milano c’è bisogno di ben altro. I finanziamenti per opere di urbanizzazione mobilitati dalle convenzioni, relative alla trasformazione delle aree dismesse approvate negli ultimi anni, avrebbero consentito la promozione di molti concorsi. Una pubblica amministrazione autorevole deve subordinare le iniziative immobiliari alla pratica dei concorsi aperti, se ritiene importante che l’esito architettonico – cioè il volto pubblico della città – sia della massima qualità. E il concorso può diventare anche un motore di sviluppo economico, se è utile, ad esempio, per inventare modalità di riuso di manufatti abbandonati, che sono grandi sprechi di risorse. Si pensi agli immobili abbandonati della ex Innocenti a Lambrate, il cui degrado avanza ormai senza sosta.

Oltre agli scali ferroviari, i programmi di riqualificazione delle aree periferiche, che il sindaco Sala vuole promuovere, sono l’occasione per inaugurare una nuova stagione di gare progettuali, e di dibattiti e confronti, che queste sempre generano.

Sarebbe una stagione di rinnovamento della democrazia, che oggi appare pericolosamente affaticata dal peso della burocrazia e dal disorientamento ideale della politica. Una nuova stagione di confronti e di riflessioni potrebbe contribuire finalmente alla formazione di un’idea di città. È anche l’assenza di questa idea, cioè di un progetto forte di trasformazione delle città, che rende debole l’offerta politica della sinistra rispetto alle suggestioni populiste.

 

Alberto Caruso

 



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