7 dicembre 2016

CLAUDIO DE ALBERTIS UN PROTAGONISTA DELLA VITA MILANESE

L’amore per il mestiere, la cultura, la città


Ho conosciuto Claudio De Albertis – l’”ingegnere” – verso la fine degli anni 80, quando era, tra l’altro, alla presidenza dell’In-Arch, l’istituto nazionale di architettura, Sezione Lombardia. Si era presentato, con l’amico e collega Paolo Caputo, in un’aula del Politecnico per discutere nuove linee d’azione per promuovere un necessario dibattito sulle sorti dell’architettura in quella che si profilava allora come la “Milano da bere”.

03irace40fbAll’inizio ci fu una certa diffidenza: per un giovane professore di storia dell’architettura al Politecnico di Milano, De Albertis rappresentava il “potere”, qualunque cosa questa mitica espressione potesse realmente significare. Ma alla diffidenza seguì presto quella che potrei oggi definire una riservata amicizia, cementata più tardi dalla collaborazione, come consulente, al gruppo di progettazione per il concorso di recupero e trasformazione dell’area dell’ex Fiera.

Claudio è stato persona di ruvida gentilezza: propensa naturalmente ad andare al sodo, con una rapidità che a volte lasciava sconcertati, tanto da poter essere persino scambiata per una forma di blando cinismo. Al contrario, nelle motivazioni della sua spiccia rapidità stavano le ragioni del fare: la necessità di doversi spendere in un’azione intellettuale dal valore collettivo, non individuale. Il suo curriculum era da generale in armi: presente nel mondo associativo a livello nazionale e locale con incarichi di alta responsabilità, dalla presidenza dell’Assimpredil (1990-1996) alla vicepresidenza dell’Ance, l’associazione nazionale costruttori edili, alla presidenza (dal 1996 al 2000) del Centredil-Ance Lombardia e poi a quella dell’Ance (dal 2000 al 2006).

Veniva d’altra parte da un’azienda storica nel campo dell’imprenditoria edile- la Borio Mangiarotti – della cui storia familiare era particolarmente fiero per le numerose collaborazioni con alcuni degli architetti più significativi della città.

Ma, diversamente da tanti altri, Claudio non ha cavalcato le istituzioni per promuovere la sua carriera: piuttosto, direi, ne ha interpretata la responsabilità per promuovere azioni di sostegno all’architettura, anzi alla pratica del costruire, con una particolare accentuazione per gli aspetti etici dell’imprenditoria, soprattutto per quanto riguarda la trasparenza delle procedure, la sicurezza dei cantieri, la promozione della qualità.

Chiunque avesse bisogno d un sostegno per qualcuna di queste battaglie, era sicuro di poter trovare in lui un interlocutore attento e un sostenitore discreto: e la lista di quanti hanno avuto da lui risposta alle loro domande è lunga.

Da questo punto di vista il traguardo della presidenza della Triennale era stato per lui un obiettivo importante e ambito, perché aveva intuito con lucidità le possibilità (e in fondo il dovere) di questa tipica istituzione milanese di aprirsi al territorio e all’ambiente culturale con una nuova e più incisiva forma di interventismo ai più diversi livelli. La formula della XXI Triennale era stata da lui fortemente voluta e, per quante critiche potessero essere legittimamente essere rivolte alla pratica applicazione di taluni suoi aspetti, non c’è dubbio che fosse appropriata in un momento in cui la città era chiamata a riflettere in maniera inedita sulle sue trasformazioni e sul suo futuro.

In quest’avventura Claudio si era buttato senza risparmio di energie, impiegando al meglio le sue abilità di negoziatore e di tessitore, indispensabili per dotare l’ente delle risorse necessarie alla promozione delle sue attività.

Eppure, quando fu eletto presidente della Triennale non gli furono risparmiate critiche al limite dell’ingiuria e del pregiudizio, quasi fosse la personificazione di un Attila – il capo della lobby dei cementificatori – arrivato a far tabula rasa della cultura nel suo maggior tempio cittadino e nazionale. Un giudizio che dovrebbe far arrossire tutta la comunità per la faciloneria e frettolosità con cui si costruiscono le opinioni pubbliche, indipendentemente dalle valutazioni di merito e dall’analisi dei fatti. Ovviamente questo significa non che le sue scelte fossero sempre condivisibili (e in verità posso affermare che neanche lui se lo aspettava o lo pretendeva), ma che le loro motivazioni fossero al di sopra delle parti: un tentativo di ricucire l’eterna frattura tra l’assise degli imprenditori (dei “facitori”) e la galassia delle élites intellettuali. La sua perdita è dolorosa anche per questo: ma la sua figura resta un termine di paragone cui nessuno potrà sottrarsi, né chi lo ha amato e sostenuto, né chi lo ha  criticato ed osteggiato.

 

Fulvio Irace



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