7 dicembre 2016

LA “MONOTONIA” E LA VARIETÀ

Dalla Fondazione Feltrinelli agli scali ferroviari


Hans Schmidt sosteneva che la monotonia è una qualità dell’architettura razionale. Schmidt citava la ripetuta regolarità degli edifici allineati lungo Rue de Rivoli a Parigi, Bedford Square a Londra e piazza San Marco a Venezia, come esempi nei quali l’uniformità diventa mezzo artistico.  La Parigi che conosciamo e amiamo – scriveva Schmidt nel 1964 – ha regolato l’architettura dei suoi boulevards mediante un unico, unitario gabarit (fr.  Sagoma). Perché allora non parliamo qui di monotonia? L’esito della ricerca della varietà nella forma e disposizione degli edifici, scriveva ancora Schmidt, è di quartieri di abitazione cui manca il volto unitario della città e in cui lo sforzo di ottenere la massima diversità rischia di produrre una nuova forma di uniformità: il disordine, l’anarchia.

09caruso40fbHo ripensato alle parole di Schmidt leggendo le polemiche sull’edificio della Fondazione Feltrinelli di Herzog & De Meuron a Porta Volta, che sarebbe troppo lungo e ripetitivo, monotono. E a come, invece, la fiera della varietà esibita nel pezzo di città costruito tra la stazione Garibaldi e piazza Repubblica sia stata accolta da un grande successo, non solo popolare, ma anche da parte della politica e dell’intellettualità di quella sinistra che pure aveva avversato il liberismo urbanistico del centrodestra milanese.

Radio Popolare ha festeggiato i propri quarant’anni in piazza Gae Aulenti. E flebilissime sono state le voci di chi si dissociava da Pisapia e dalla sua Giunta quando l’allora Sindaco celebrava la pesante eredità degli edifici di Porta Nuova come la città del futuro. Chiedo ai lettori di ArcipelagoMilano: quali relazioni ha stabilito la mole rotonda dell’Unicredit di Pelli con la noce di De Lucchi e con il parallelepipedo in cantiere di Cucinella? E con l’edifico bianco di Piuarch, che volta le spalle alla città preesistente? E lo spazio pubblico ritagliato tra questi edifici ricordate che abbia una forma?

Ho già avuto modo di scrivere su queste pagine come il successo popolare della fiera di edifici e di spazi di Porta Nuova deriva proprio dalla sua straordinaria capacità di rappresentare – come ogni fiera, luna park, mercato di strada – i sentimenti antiurbani della tanta gente insoddisfatta della povertà espressiva e delle condizioni ambientali di grande parte della città vera, soprattutto della periferia. E di come chi governa la città utilizza l’occasione di acquisire consenso assecondando questi sentimenti, consentendo la ricostruzione di nuove parti di città non motivate da una nuova ”idea di città”, ma che provocano effetti di estraneamento rispetto a quella vera. Le tre torri di City Life sono il massimo dell’esibizionismo, ma la scelta più grave è l’insediamento delle case di Zaha Adid e di Libeskind in mezzo ai lotti di pertinenza, perimetrati da giardinetti e recinzioni come ogni iniziativa immobiliare dell’hinterland, negando in modo dichiarato la relazione tra edifico e strada, necessaria per fare città. È la periferizzazione di Milano, l’introduzione nella città densa, dove ancora resiste il disegno del Beruto e dei piani successivi, di disgreganti varietà insediative.

Il lungo edificio della Fondazione Feltrinelli, piaccia o meno, indica una strada alternativa. La sequenza regolare di pilastri perimetrali, segata dalle forti ombre degli aggetti orizzontali, lo differenzia dagli altri edifici avvolti da involucri continui. Le falde sono trattate come un’estensione verso il cielo dei fronti, come una rastremazione del volume, e l’effetto prospettico singolare – prodotto dal collegamento diagonale della struttura verticale – deforma la figura originaria, archetipa della falda, trasfigurata in una sorprendente geometria. È un’architettura urbana, che finalmente completa via Pasubio rimasta edificata su un solo lato, collegando Porta Volta a Porta Garibaldi.

Scala, struttura e ripetizione sono interpretati in modo esemplare. Gli stessi autori dichiarano di volersi riferire alla semplicità e alla grande scala dell’architettura storica milanese, e citano l’Ospedale Maggiore, il Lazzaretto, il Castello Sforzesco, la dimensione lunga e lineare dell’architettura rurale lombarda, le abitazioni aldorossiane del Gallaratese. Si pongono l’obiettivo di rafforzare la forma della città, di interpretare le regole costitutive della sua bellezza. È un’architettura che si oppone allo spaesamento derivante dalla ricerca esibizionista e allo svanire di un concetto condiviso di urbanità, a cui corrisponde un indebolimento evidente del sentire comune.

Rimaniamo a Porta Volta e guardiamoci in giro. Il bellissimo edificio di abitazioni – di cui non conosco l’autore – situato sul bordo dell’area della stazione Garibaldi subito prima del ponte di via Farini, è stato “risanato energeticamente” e avvolto da un rivestimento di ceramiche da bagno a strisce bianche e grigie a disegni variati da piano a piano, che ha cancellato il rigore elegante del fronte. E poco più avanti, nel piazzale del Cimitero Monumentale, all’angolo con via Procaccini, il nuovo grande edificio residenziale cerca di attirare l’attenzione con la divisione del fronte in porzioni verticali colorate di toni diversi, mancando l’occasione di una soluzione attuale del grande tema dell’architettura d’angolo, che in città annovera esempi importanti. É una gara a chi la fa più varia e diversa, per cui la “tensione teatrale” (di cui parla Giancarlo Consonni nel suo ultimo piccolo libro intitolato Urbanità e bellezza), intesa come messa in scena delle relazioni tra gli elementi compositivi della città per rappresentarne la bellezza civile, lascia il posto allo spettacolo disordinato di mille assolo. (E tuttavia bisogna anche riconoscere che c’è qualche raro segnale di controtendenza, come la notevole architettura di Onsitestudio sull’angolo di piazza Duca d’Aosta).

Sembra davvero difficile capire come si possa riportare la politica di sinistra alla consapevolezza della propria missione, di elaborare e indicare strategie di lungo periodo, proposte per una città compatta e solidale, che risultino convincenti e popolari perché basate sui veri bisogni. Si elaborano proposte per ordinare e densificare le aree metropolitane più disgregate – socialmente, oltre che fisicamente – dallo sprawl e non ci si avvede che si sta favorendo la crisi della città. E sulla questione importante del riuso degli scali ferroviari, siamo alle solite. Si organizza un “workshop partecipato” per raccogliere proposte dagli architetti (i soliti), invece che assumersi la responsabilità politica di un orientamento chiaro, basato sulla presa d’atto dei bisogni più drammaticamente evidenti e arretrati, innanzitutto le abitazioni economiche. Gli architetti hanno il compito di inventare le forme più espressive e le tecniche più efficaci per realizzare le scelte della politica, non di offrire supplenza alla politica.

 

Alberto Caruso

 

 

 

 



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