30 novembre 2016

SOLDATI NELLA CITTÀ INCOMPRESA

Camminare, camminare per la città: San Siro


Stimolato dalla notizia che confermava l’arrivo dell’esercito anche a San Siro (come in via Padova e al Corvetto), quartiere nel quale abito da decenni, e dalla riflessione di Eleonora Poli, ho voluto tornare in strada. Ho voluto tornare in strada per immaginare dove si sarebbero scavate trincee e dove si sarebbero alzati i reticolati e per capire che cosa avesse provocato questa ondata di panico e la contromisura del ricorso ai bersaglieri.

08pivetta39fbHo percorso in lungo e in largo il quartiere, dallo stadio fin verso piazzale De Angeli, dalla mia via che è un deserto di caseggiati ben cintati e presidiati da telecamere di vedetta, caseggiati di pretese piccolo borghesi, tra scuole e asili frequentati da bambini d’ogni genere, confessione, nazionalità, colore (ma non credo che per il momento possano inquietarci), chiese e ambulatori.

Lasciandomi alle spalle l’edilizia popolare del dopoguerra (qui l’architettura, opera di maestri del Novecento, offre motivi vari di interesse), il Meazza, le vecchie scuderie e i campi di gara in abbandono, attraverso vie di edifici mediocri tra anni sessanta e anni settanta, arrivo in fretta alle case popolari che il fascismo fece erigere alla fine degli anni trenta, povere, sbrecciate (ma intonaci nuovi compaiono qui e là), costruite tuttavia secondo un disegno che esprimeva qualche idea di socialità (per quanto rinchiusa, emarginata, cintata), un mondo a parte e autosufficiente (con i suoi asili e le sue biblioteche popolari).

Vi abitarono per decenni operai milanesi e brianzoli, poi immigrati dal Sud e dal Veneto. Infine in quelle case sono arrivati “loro” e sono diventate tutte “di loro” (come dicevano i torinesi autoctoni all’arrivo dei terroni): nordafricani, filippini, sudamericani, ucraini. Saranno loro i “sorvegliati speciali”?

Cammino tra via Dolci, via Ricciarelli, via Morgantini. Elenco i negozi: le kebaberie (che sia lì il pericolo, che sia più indigesto il kebab del mcdonald?), i bar e i ristoranti dei cinesi, la Boutique Palestina (chiusa di recente: eleganza medio orientale di velluti, sete, veli e lustrini), i posti telefonici, la sala benessere (misteriosa, polverosa e pure cinese), il meccanico (rigorosamente italiano) e l’esposizione delle moto, persino il noleggio delle barche a vela, la farmacia (italiana), l’ottico (italiano), lo show room dei divani medio orientali (intagli e, di nuovo, lustrini), il pizzaiolo (pizza al trancio dell’imbattibile Michele), il colorificio, il venditore di tappeti e di coperte, di caffettiere e di teiere…

La kasbah milanese è una sfilata di tante insegne e di tante divise: nostrani grigi impiegatizi, tute da gommista, piumini casalinghi, kamis, caffetani, velature integrali in nero, vezzosi fazzoletti in testa e sotto spigliate ragazzine in leggings. Soprattutto jeans, universali. A ogni negozio gruppi di immigrati, che alla solitudine delle loro case affollate e malmesse preferiscono la compagnia alla luce di una vetrina.

In tanti anni ho visto una serranda frantumata (una tabaccheria, questione di racket), uno scippatore in fuga e un paio di cantine ispezionate. Ancora vedo biciclette e motorette abbandonate in alcuni angoli scuri dei cortili: refurtiva avariata? Ho letto anche di un presunto reclutatore dell’Isis pescato dalla nostra polizia dopo indagini e indagini nel suo appartamentino di via Paravia (poco oltre la casa dove abitarono Sereni e Raboni, i poeti).

Mi hanno riferito di spacciatori che distribuivano la loro merce dalle finestre di casa (al pianterreno). Come in tutte le vie della festosa movida milanese (confesso: mi fanno più paura l’arroganza e la violenza, l’alcol e le droghe di certe ore lungo i Navigli). Potrei aggiungere che la domenica mi avventuro fino al parco di Trenno: lì è un vero mundial, calciatori di tutte le lingue e di tutti i colori, come in qualsiasi anche modesta squadra della nostra serie A.

Mi sento politically correct all’ennesima potenza. Dovrei tentare di riassumere qui le tante belle iniziative che si rivolgono al quartiere… Tuttavia non riesco a provare ostilità nei confronti dei militari (quando non fanno la guerra). Anch’io, alla mia età, sento il bisogno di sentirmi rassicurato e ammetto che un po’ di fastidio me lo provocano i questuanti organizzati. Ma non capisco tanto allarme. Per l’accoltellamento di piazzale Loreto? La “diversità” non è sempre facile da accettare: dipende anche dalla saldezza della nostra cultura. Ma la diversità in sé può essere una minaccia? Non vorrei che l’allarme fosse allarmismo e che si pensasse di poter fermare accoltellatori, spacciatori, truffatori, aggressori (permettetemi di aggiungere: tifosi ubriachi e rockettari fumati) di ogni genere impugnando il fucile mitragliatore e magari di risolvere allo stesso modo altre questioni che riguardano lavoro, scuola, cultura, cioè, per tagliar corto, il degrado di questa civiltà (occidentale, s’intende).

Oreste Pivetta

 

P.S. ordine e sicurezza si salvaguardano magari cominciando da azioni non proprio di segno militare: a San Siro, dall’impedire la sosta selvaggia a ogni partita e a ogni concerto fino al discutere un serio piano di utilizzo delle aree dismesse dall’ippica e un serio progetto di recupero dell’edilizia popolare (anche abbattendo ciò che è palesemente irrecuperabile).

 

 



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