19 giugno 2013

CHIAMIAMOLA PURE SMART CITY. MA CON GIUDIZIO


Come tutte le semplificazioni di moda, anche la cosiddetta (l’aggettivo cosiddetto qui è rigidamente d’obbligo) Smart City si presta a varie interpretazioni, tutte adattabili all’ampio contenitore del nome, ma che spesso e volentieri si sbilanciano in una sola direzione, al punto da coincidere con una sola applicazione tecnologica attorno alla quale poi gira tutto il resto. Certo nessuno nega che introdurre innovazioni non sia un modo smart di affrontare problemi, né che le tecnologie facciano sempre bene alle città, che anzi nasce proprio come concentrato di tecnologie, distinta dalla campagna dove esse comunque applicate in modo più diluito sul territorio.

Per restare all’evento milanese del 2015, basta un’occhiata al filmato di presentazione della Smart City Expo per cogliere la centralità della piattaforma tecnologica, in sostanza tutto ciò che consente un rapporto complesso e interattivo con la città, specie col quartiere espositivo. Vediamo una bella ragazza che arriva a Milano, sfrutta al meglio i servizi offerti dalle tecnologie di comunicazione per organizzarsi, raggiungere il quartiere dell’evento, e poi fruire di varie possibilità. Il che coinvolge anche aspetti esterni alla rete high-tech, che funge da interfaccia tra city user e città fisica: ma tali aspetti rimangono sullo sfondo, o sullo schermo del terminale personale. Insomma è più grande e complesso quanto sta fuori, da questo tipo di smart city, di quanto non ci stia dentro.

Da qualche parte bisogna pur cominciare, e piuttosto che niente è meglio piuttosto, come dice l’adagio popolare. Ma da dove è meglio cominciare? Anche da un’idea integrata molto piccola come la gestione intelligente della sosta possono svilupparsi in fretta tentacoli in grado di coinvolgere la città nel suo insieme. Appare chiaro però il bisogno di un approccio ampio già in partenza, soprattutto non limitato (negli investimenti e nelle speranze) a piattaforme high-tech e relativa organizzazione. Si devono coinvolgere, mettendoli al centro, aspetti sociali, ambientali, economici, politici. Perché è assai poco smart avere un computer nel taschino, se lo si usa per giochetti autoreferenziali.

Il criterio dipende naturalmente dai contesti, dalle risorse, dalla discrezionalità delle scelte di chi promuove, finanzia, gestisce. Ma esistono misuratori elaborati per costruire ratings unitari di esperienze diverse, in cui si cerca di andare oltre la sommatoria aritmetica dei punteggi di settore, per considerare la città come spazio fisico e sociale integrato, dove le eccellenze possono anche ridursi a poca cosa se non organicamente collegate a tutto il resto. Nell’esperienza smart della signora in visita all’Expo mancano completamente dei ratti a cui pestare la coda, poi inciampare e cadere a terra sfasciando il tablet. Niente di sorprendente, ma può sorprendere che non si sappia nulla del perché quei ratti sono esclusi dalla sceneggiatura. Perché la smart city non si immischia con faccende di gestione ambientale? Oppure perché la trafila della rete integrata riguarda solo gli aspetti privati, escludendo la pubblica amministrazione?

Non possiamo saperlo se non ci dotiamo di un criterio di valutazione, come quello di Boyd Cohen che per Fast Company ha fatto una graduatoria di città classificandone i progressi verso la smart city. Ne emerge un quadro diverso da quanto ci si immagina d’istinto: in cui entrano le classiche reti high-tech, magari accoppiate alla sostenibilità energetica e ambientale, oppure agli investimenti in ricerca e sviluppo. Ma c’è di più: sono aspetti molto terra-terra a fare la parte del leone. Una società giusta e inclusiva è molto smart, un eccellente livello di abitabilità dei quartieri pure, trasporti accessibili a tutti, non inquinanti, valgono più di tutti gli schermi ammiccanti del mondo. I gingilli simbolo della nostra epoca post-meccanica iniziano ad avere un ruolo importante quando sono parte integrante del resto: non conta lo schermo ma la qualità reale di ciò che virtualmente mostra.

Del resto, se sulla parola smart si possono anche organizzare migliaia di convegni da venditori professionisti che interpretano e ritagliano il termine su misura alle proprie esigenze, sulla parola city c’è molto meno spazio di manovra, perché tutti almeno in sede locale la sanno declinare benissimo dal punto di vista materiale. E un ambiente poco smart, o una società ingiusta e diseguale, o un’amministrazione lontana dalla vita quotidiana dei cittadini, saltano all’occhio, e non basta allontanarli dallo sfondo dei filmati pubblicitari, o dalle informazioni degli sponsor tecnologici. Ma la cosa più importante è l’idea di città come un tutto unico interdipendente: la si può intuire nell’immagine sinottica proposta dalla Ruota della Smart City allegata all’articolo di Boyd Cohen sul sito di Fast Company. E poi magari provare a valutare in modo sistematico con quel criterio di massima il filmato della Smart City Expo. Ne esce diciamo così così: si può fare molto meglio.

 

Fabrizio Bottini



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