20 marzo 2013

RESISTERE IN LOMBARDIA


La Lombardia è la mia terra e la difendo. Perché ne sono cittadino. Perché sono uomo e perché rivendico il diritto di dire la mia. E perché in questa terra che nell’ignavia ha pascolato sotto i potentati regionali che garantissero un benessere di facciata io credo e che in questa terra la discontinuità non sia solo un fine politico ma un margine di lotta contro le mafie che bisogna attraversare una volta per tutte. Non posso tollerare che si sia parlato della ‘ndrangheta e dell’assessore Zambetti come un caso personale di abboccamento criminale senza sapere che l’avanzata della ‘ndrangheta nelle così alte sfere politiche è figlia di un sistematico lavoro ai fianchi che è durato tutto gli ultimi anni, favorito da chi ha messo in vendita i diritti e i doveri sulla bancarella delle lobby e dall’incoscienza (o collusione) da chi ha negato per scavalcare un problema senza sentire il dovere etico di attraversarlo. 

Non posso sopportare, io da lombardo nella mia Lombardia, che quelle migliaia di voti che sono stati venduti a Zambetti abbiano rivotato alle ultime elezioni regionali senza nemmeno essere state citate nelle agende politiche, non posso sopportare che Roberto Maroni abbia reso l’antimafia uno spot da sagra di paese, che i sociologi e gli intellettuali che hanno lavorato sull’analisi e sulla propagazione di un’antimafia di studio e culturale vengano usati per le feste di partito vicino alla griglia delle salamelle e poi accantonati nel dibattito politico, non posso sopportare che la regione che consuma un terzo della cocaina d’Italia possa fare la verginella che tratta la droga come un aperitivo un po’ spericolato, non posso sopportare di vivere in una regione con troppi ipermercati e troppe case costruite poi rimaste invendute e troppe zone industriali mentre lamentiamo le troppe poche industrie, non posso sopportare di vivere in una regione dove il riciclaggio (e l’autoriciclaggio) disegna i profili delle città, non posso sopportare di vedere periferie in cui la protezione è un bene da acquistare o elemosinare nel mercato illegale, non posso sopportare di vivere in una regione dove si continua a considerare il prodotto interno lordo senza scorporare il malaffare.

La Lombardia è la mia terra e la difendo, da cittadino, mica eletto, e nemmeno da scortato antimafioso perché mi verrebbe troppo comodo e troppo paratelevisivo, ma da cittadino con i figli che lavoreranno e faranno altri figli qui in Lombardia, la difendo dai faccendieri, gli affaristi, i viscidi commensali, i lacchè senza dignità e la retorica della propria terra che ha innescato un meccanismo perverso (e inverso alla democrazia) che in alcuni settori chiede “chi ti manda” e “a chi appartieni” per decidere la possibilità di assunzione e di carriera. La Lombardia la difendo dall’analfabetismo (coltivato ad hoc) verso le persone serie, oneste e dedite all’etica come dovere morale, in una regione che per decenni ci ha convito che la spericolatezza fosse una virtù in politica e nell’imprenditoria e una regione che ha voluto convincerci che la solidarietà sia un vezzo democratico che non possiamo permetterci per non mettere a rischio la sicurezza dei nostri figli.

Io non so cosa debba succedere ancora per chiederci di andare oltre all’indignazione sulle associazioni criminali che sono arrivate fino ai gangli più alti della politica regionale; se serva un morto ammazzato proprio in mezzo al corridoio del Pirellone o l’arresto di un altro assessore con la coppola in testa e la lupara sotto il cappotto per convincerci che l’emergenza è passata da un pezzo e l’infiltrazione mafiosa è stata un momento di una diffusione radicata e ormai difficilmente riconoscibile che svena ma non tormenta, non si sente: sembrano al massimo un paio di linee di febbre.

Io non tollero più di fare lo scortato buono per le interviste, le televisioni, gli antimafiosi una volta al mese nei convegni tra amici e poi non riuscire a raccontare cosa è cambiato alla sera quando me lo chiedono i miei figli. Perché abbiamo sbagliato noi, forse, a credere che bastassero questi ultimi mesi per dare l’idea di un allarme che suona muto da decenni e invece siamo ancora visionari (forse meno di una volta), allarmisti (anche se con più seguaci) e minoranza. Di una battaglia che è politica dove mafia e Stato (o Regione) fanno lo stesso identico mestiere: offrono occupazione, welfare e protezione. E due concorrenti nello stesso territorio o si fanno la guerra all’ultimo respiro oppure viene il dubbio che si siano messi d’accordo.

 

Giulio Cavalli

 



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