21 novembre 2012

MUSEO ALFA ROMEO DI ARESE. PERCHÉ CANCELLARE UN PEZZO DI STORIA MILANESE?


In un periodo di disorientamento edilizio come l’attuale, che vede grattacieli inclinati deliberatamente, come quelli presso il casello autostradale di Rho, o grattacieli piegati da una gobba, come quello previsto a City Life dentro la vecchia Fiera Campionaria, diventa un dovere salvaguardare le architetture contemporanee di qualità, anche se attualmente sono parzialmente in disuso. Sebbene esse non sempre siano capolavori di importanza storica servono tuttavia a documentare un’epoca di impegno, a testimoniare una prova di serietà, a dimostrare una professionalità competente e coscienziosa. Un dovere questo della conservazione e della salvaguardia che non sembra essere condiviso da chi dovrebbe dare esempio di responsabilità civica: come dimostra la chiusura al pubblico del Museo Storico Alfa Romeo ad Arese, attualmente di proprietà Fiat, visibile uscendo da Milano sulla destra dell’autostrada dei Laghi, subito dopo la barriera del pedaggio.

Progettati da noti professionisti milanesi (l’architetto Antonio Cassi Ramelli, gli architetti Vito e Gustavo Latis e l’ingegnere Vittore Ceretti) l’ex Centro Direzionale Alfa Romeo è composto da più corpi di fabbrica accostati ma non allineati, la cui disposizione planimetrica suggerisce un andamento mosso e articolato, alla cui definizione collaborò anche il noto architetto del paesaggio Pietro Porcinai. Collocate dietro agli edifici amministrativi, ma non visibili dall’autostrada, si trovano le officine meccaniche e i relativi servizi aziendali, progettati dall’architetto Giulio Minoletti, nonché i centri di elaborazione tecnica, progettati dall’architetto Ignazio Gardella. Come si vede un complesso industriale, questo dell’Alfa, che anche per dimensione e notorietà dei progettisti, rappresentava un vanto dell’Italia e faceva concorrenza con le note realizzazioni industriali della ditta Olivetti, invidiateci da tanti paesi stranieri.

Lasciati liberi dagli uffici, smobilitati in seguito alla crisi della produzione di vetture, gli attuali fabbricati non hanno più una destinazione chiara e definita. Importante fra di essi è l’edificio appositamente costruito per ospitare il Museo Storico, nel quale, oltre agli esempi di vetture che testimoniano la storia della gloriosa fabbrica, sono raccolti, in un nutrito archivio, documenti, cimeli, tavole di progetto, disegni tecnici. Il Museo Storico, inaugurato nel 1976, è stato chiuso al pubblico (ufficialmente per interventi di manutenzione) nel febbraio 2011, pochi giorni dopo che il Ministero per i Beni e le Attività Culturali lo ha posto sotto tutela. Si spera che in vista anche della prossima apertura di Expo 2015, collocata a poca distanza, il Museo possa essere riaperto e valorizzato.

La minaccia, in seguito all’attuale abbandono, di una probabile completa sovversione dell’intero complesso industriale, e di uno snaturamento degli edifici esistenti, soggetti a nuova e diversa destinazione, suscita molte e preoccupate riflessioni, tutte poco benevole. Non solo fa meditare sui discutibili criteri di intervento edilizio di fronte a edifici di qualità; fa anche riflettere tristemente sul modo di concepire lo sviluppo urbano al di fuori dei confini metropolitani; e infine lascia sgomenti la cinica disinvoltura con cui si chiude al pubblico un patrimonio culturale di pubblico interesse, quale è il ricco e fornito Museo Storico Alfa Romeo.

– La prima riflessione, non benevola, riguarda la totale assenza di tutela nei confronti di edifici di notevole significato documentario anche se non di grande valore monumentale. Occorre riconoscere che la lacuna legislativa su questo argomento ancora oggi è totale. Serve poco cercare consolazione nel constatare che anche in paesi stranieri lo stesso argomento è tuttora ignorato. La difficoltà giuridica sta nel conciliare il diritto di proprietà – e la libertà d’uso che a questo diritto è connessa – con il dovere di rispettare le testimonianze significative del nostro passato.

È fatale che nel corso della sua vita un edificio subisca cambi di destinazione, trasformazioni di uso, modifiche di funzioni; non è fatale che tali cambiamenti implichino necessariamente lo sconvolgimento architettonico dell’edificio; o peggio la sua demolizione. Quando esso riflette l’immagine di un determinato momento storico, e rievoca il costume dell’abitare del vivere e del lavorare, proprio di una particolare epoca, la sua sopravvivenza diventa un atto di civiltà, una dimostrazione di coscienza civica. Se questo criterio non fosse stato adottato nei centri storici delle nostre città, non sarebbe rimasta più nessuna traccia dell’antico tessuto urbano e si vedrebbero oggi, soffocati da grandi e alti grattacieli, soltanto i pochi monumenti giudicati di indiscusso valore estetico e perciò sopravvissuti. È la visione, rivoluzionaria e polemica, proposta e lanciata a suo tempo da Le Corbusier, in un momento di giustificato attacco contro il conservatorismo accademico, ma fortunatamente mai adottata e mai messa in atto.

Occorre spostare in avanti e più vicini al nostro tempo i limiti cronologici fissati in vista della tutela di monumenti; e includere tra i beni da tutelare anche le costruzioni di epoca più recente, fino ad arrivare ai nostri giorni; occorre riconoscere che le testimonianze del passato, anche del passato più recente, quando vengono giudicate opere di indubbia qualità meritano la tutela, esigono la salvaguardia. Tutela e salvaguardia che non significano ovviamente intangibilità dell’edificio da conservare; non esigono la imbalsamazione delle sue forme originarie; né impongono un divieto totale e assoluto di qualsiasi mutazione; ma richiedono il rispetto dei suoi principali caratteri stilistici, architettonici e strutturali. Poiché non esiste ancora una legislazione estesa a questo ordine di argomenti una delle prime azioni da avviare, presso il Ministero per Beni Culturali e le Attività Culturali, dovrebbe essere quella di definire i criteri secondo i quali classificare gli edifici di recente costruzione giudicati meritevoli di tutela.

– La seconda osservazione, non benevola, sulla minaccia che mette in pericolo gli uffici Alfa Romeo, e soprattutto la esistenza del Museo, riguarda il modo di crescere della città: una città che si sviluppa senza un Piano chiaro e comprensibile; senza una idea dei criteri secondo cui ingrandirsi; senza un disegno della sua futura configurazione territoriale. Oggi la crescita urbana segue sventuratamente il processo detto “a macchia d’olio”, il che significa un allargamento progressivo della superficie urbana, lungo l’intero suo perimetro, senza lasciare intervalli di verde né tra i nuovi insediamenti e il tessuto esistente, né tra un nuovo insediamento e l’altro. È il peggiore modo di ingrandire la città; la più colpevole causa della caotica configurazione assunta dalle città di oggi.

Tempo fa il direttore di ArcipelagoMilano, Luca Beltrami Gadola, aveva manifestato un suo lucido parere su quali siano i criteri di crescita urbana da auspicare e da sostenere. E aveva spiegato che il primo atto da compiere avrebbe dovuto essere l’arresto della crescita “a macchia d’olio”, oppure, il che è lo stesso, la delimitazione del limite topografico oltre al quale la città non dovrebbe ulteriormente allargarsi. È necessario fissare una dimensione massima e non superarla; è anche necessario stabilire una popolazione massima, e non aumentarla. Lo sviluppo successivo potrà attuarsi con nuclei autonomi distribuiti ad anello nel territorio regionale: la proposta era già stata indicata in uno schematico disegno tracciato da Leonardo da Vinci, ospite alla corte di Lodovico il Moro; oppure lo sviluppo potrà attuarsi mediante raggi di edificazione centrifuga, divergenti dal tessuto esistente e alternati a corridoi di verde spinti fino ai margini della città storica: la proposta prende il nome di sviluppo “a turbina” perché la configurazione planimetrica degli insediamenti previsti assomigliava alle pale di una turbina. Qualunque sia il criterio di crescita scelto per lo sviluppo della città, le successive operazioni edilizie sapranno come orientarsi, in che direzione procedere, che località occupare e quali dimensioni rispettare.

Anche la spinosa questione del Museo dell’Automobile, la sua permanenza dove si trova oggi, o il suo spostamento in località più prossima alla città, troverebbero una loro logica soluzione, coerente con le scelte fatte a monte, se soltanto esistesse e fosse attivo un vero Piano di sviluppo urbano, anzi metropolitano.

Oggi è indubbio che sarebbe un errore trasferire il Museo altrove, ma altrettanto indubbio è il fatto che esso richiederà un comodo e spedito collegamento con la popolazione cittadina, dal momento che è finita l’attività quotidiana della fabbrica alla quale il Museo era collegato e dalla quale traeva animazione e sostentamento.

– La terza considerazione, non benevola, sul futuro destino del Centro Direzionale Alfa Romeo riguarda il Museo Storico, dove sono riuniti e conservati esemplari ancora funzionanti di vari tipi di vetture, prodotti nel corso della gloriosa vita della fabbrica. Per mantenere ciascuno di questi esemplari in condizione tale da essere ancora utilizzabili, e capaci di spostarsi e di correre, si è voluto affiancare al Museo un reparto di manutenzione, una officina meccanica dotata delle stesse attrezzature richieste dalle normali auto in uso. Un Museo di tale complessità e di così ammirevole lungimiranza non si crea facilmente. Il suo destino non può essere legato alle vicende immobiliari delle costruzioni edili a cui è collegato e insieme alle quali è nato; la sua creazione fa parte di un programma unitario e organico che aveva presieduto alla creazione dell’intero complesso industriale Alfa Romeo. All’interno di questo programma, del quale l’ultimo promotore e sostenitore è stato l’ingegner Giuseppe Luraghi, per molti anni illuminato presidente di Alfa Romeo, il Museo rappresentava una stretta integrazione di attività produttive con interessi culturali; era la testimonianza di un modo illuminato e aperto di concepire il lavoro operaio, non più esclusivamente circoscritto alla efficienza operativa, ma anche aperto alla curiosità e alla conoscenza dei più vasti orizzonti entro cui si colloca l’attività manuale.

In una prospettiva di futuro sviluppo turistico, un Museo Storico avrebbe grande successo; sarebbe un punto di attrazione per visitatori giovani e meno giovani, un luogo in cui vedere esposta e raccontata la storia della nostra migliore genialità tecnica. Spostarlo indifferentemente, come se fosse un frivolo trastullo, da una località all’altra, è segno di colpevole superficialità, di biasimevole incultura, di imperdonabile cecità dello stretto legame che esiste tra funzione, localizzazione, fruizione di un pubblico edificio.

Le riflessioni non benevole o meglio malinconiche, sulle prospettive riservate al polo industriale Alfa Romeo e sull’annesso Museo Storico, hanno indotto ad alcune constatazioni di carattere generale; estendibili dal caso milanese all’intero costume della nostra nazione:

a) Non esistono disposizioni legislative rivolte alla conservazione e difesa di architetture contemporanee giudicate di interesse culturale. Il limite dei cinquant’anni, prima del quale non è possibile porre nessun vincolo di tutela è eccessivamente permissivo, e del tutto inadeguato sia alla velocità con cui nella nostra epoca si verificano le trasformazioni del territorio sia ai mutati criteri di valorizzazione riservati alle opere da conservare: quest’ultime infatti sono da giudicare non più secondo criteri esclusivamente storici e di anzianità, ma secondo giudizi di qualità e di valore intrinseco, applicabili anche a creazioni attuali.

b) Non esistono disposizioni legislative indirizzate a controllare i diversi e possibili modi di sviluppo urbano e che aiutino a trovare le forme di crescita di una città in considerazione dei sui rapporti con il contorno: rapporti di tipo geografico, demografico, economico. La costruzione di città metropolitane potrebbe aiutare ad andare oltre la legislazione urbanistica esistente; e giungere a una nuova legislazione meno prescrittiva e più creativa.

c) Non esiste una disposizione legislativa che elegga la cultura di un popolo a valore incontestabile. Recentemente sono apparsi alcuni articoli su Il Corriere della Sera (19 ottobre, 30 ottobre, 4 novembre, tutti nell’anno 2012), in cui Andrea Carandini scende in campo in difesa della cultura, ossia della storia, dell’arte, delle tradizioni di un popolo; e lo fa in nome di valori umanistici, ventilando un monito contro la presunta razionalità, a volte gelida e disumana, del mondo tecnico. Se la coscienza di un passato, da considerare non finito né morto ma ancora vitale e ricco di insegnamenti, fosse ancora presente e operante, il Museo Storico Alfa Romeo e tutto il grandioso e glorioso complesso industriale non correrebbe il rischio di venire snaturato e di vedere la sua storia cancellata per sempre.

guarda le foto

 

Jacopo Gardella

 

 



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali




Ultimi commenti