26 settembre 2012

LA RELAZIONE PAESAGGISTICA, UN INDISPENSABILE “DIARIO DI BORDO”


Recentemente l’Ordine degli architetti della provincia di Varese e l’Istituto nazionale di Urbanistica (INU Lombardia) hanno realizzato un corso di formazione per esperti ambientali operanti nelle Commissioni locali del paesaggio, al quale ho partecipato come relatore nella giornata conclusiva. Da parte di alcuni partecipanti si è rilevato che i tempi di attesa del rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche sono molto lunghi dovuti probabilmente a un complesso percorso procedurale che prevede successivi passaggi obbligati dal Comune alla Soprintendenza con un ritorno al Comune per gli adempimenti conclusivi. Si chiedeva quindi cosa potesse essere fatto per snellire questo percorso e ottenere quindi la necessaria autorizzazione paesaggistica in tempi ridotti. Il rappresentante della Soprintendenza ha attribuito questi ritardi al rilevante numero di pratiche che arrivano nei loro uffici: alcune migliaia all’anno per ogni responsabile di area.

Questa realtà che già conoscevo da qualche tempo, mi ha indotto a qualche considerazione che vorrei comunicare sinteticamente. Occorre preliminarmente prendere in considerazione due cause che incidono sul protrarsi dei tempi: il numero delle pratiche già richiamato, ma anche l’obiettiva difficoltà a formulare giudizi di compatibilità di progetti avendo come riferimento la difesa di un fenomeno culturale complesso come il paesaggio per il quale non valgono parametri da valutazione quantitativi, di più semplice e automatica applicazione.

Nella memoria degli operatori attuali la tutela del paesaggio si può far risalire alla legge 1497 del 1939, in attuazione della quale le Soprintendenze prima e le regioni dopo (dal 1977) hanno provveduto di volta in volta a tutelare specifiche porzioni di territorio alle quali si riconosceva una particolare qualità paesistica. Questo meccanismo che arricchiva il quadro complessivo del territorio tutelato con singoli provvedimenti, spesso promossi su segnalazione locale per sventare trasformazioni devastanti per l’assetto paesaggistico, riguardava molto spesso limitate estensioni territoriali, configurando un quadro di tutela a macchia di leopardo molto criticato da chi riteneva che si dovesse procedere con modalità sistematiche all’individuazione di unità paesaggistiche di rilevanza territoriale.

Questa considerazione nel 1985 ha aperto la strada al metodo “Galasso” di individuazione automatica (da subito in forza della legge) di fasce di tutela di grande estensione legate ai principali sistemi geografici di caratterizzazione paesaggistica quali fiumi, coste dei laghi ecc. Qualcuno disse che si passava dalla distribuzione a macchia di leopardo a quella a strisce di zebra. Era un’individuazione automatica che avrebbe dovuto razionalmente essere ridefinita con la pianificazione paesistica (così si chiamava allora). All’effetto positivo di avviare per tutte le regioni una stagione di pianificazione del paesaggio, più o meno lunga, si è accompagnato l’effetto moltiplicativo dell’estensione del territorio vincolato (5 volte) e conseguentemente del numero di pratiche di autorizzazione (circa 30.000 all’anno in Lombardia).

La regione ha cercato di distribuire questo rilevante onere attribuendo a Comuni, Province e Parchi la competenza a rilasciare autorizzazioni paesaggistiche; il maggior numero dei soggetti istituzionali coinvolti poteva comportare una significativa contrazione dei tempi burocratici, ma con effetti spesso non positivi per il paesaggio. Il recente Codice dei beni culturali e del paesaggio (2004) che ha sostituito la legge del 1939, per porre rimedio a questo scadimento ha ritenuto che le Soprintendenze potessero effettuare una qualificata valutazione delle pratiche di autorizzazione paesaggistica che Comuni e Province destinatari della delega regionale devono farle pervenire in attesa di ricevere pareri vincolanti ai quali attenersi nel rilascio delle autorizzazioni di loro competenza. Il percorso è macchinoso e inoltre l’onere posto a carico della Soprintendenze è veramente eccessivo per strutture che, particolarmente in Lombardia, dispongono di un organico perennemente sottodimensionato. Spesso vengono superati i tempi assegnati alla Soprintendenza per comunicare il parere vincolante e, in tal caso, le competenze al rilascio delle autorizzazioni tornano in capo agli enti locali.

Se l’elevato numero di pratiche rappresenta una condizione negativa per una sollecita attività degli organi di controllo, questa è ancor più fortemente condizionata dalla scarsa qualità dei progetti e dalla loro inadeguata presentazione; il confronto con un tema complesso e rilevante come il paesaggio può costituire per i progettisti un impegno che non sempre riescono ad affrontare convenientemente. Per farsi un’idea basta osservare paesaggi urbani ed extra urbani per constatare come la maggior parte degli interventi si sovrapponga al contesto con indifferenza senza nessuna intenzione di contribuire alla valorizzazione della sua qualità paesaggistica, come richiede la Convenzione Europea del Paesaggio.

Lo Stato e la Regione hanno formulato indirizzi per orientare il progettista nel percorso di analisi conoscitiva del contesto paesaggistico e nella conseguente definizione delle condizioni di compatibilità all’interno delle quali è possibile formulare la proposta progettuale. Ovviamente questo non prefigura un meccanismo rigidamente deterministico basato su norme dettagliatamente precettive, a rischio di diffusione di morfologie stereotipate, mimetiche, o ispirate a modelli vernacolari responsabile della banalizzazione paesaggistica locale. Se il percorso di valutazione del contesto e l’esposizione delle ragioni del progetto d’intervento fossero ben analizzate nella relazione paesaggistica che accompagna obbligatoriamente la richiesta di autorizzazione, come se si trattasse di un “diario di bordo” del progetto, l’istruttoria degli organi preposti sarebbe più spedita e conseguentemente i tempi più brevi.

Questa è indubbiamente una formula che fa carico al progettista di costruire le condizioni per una corsia preferenziale nella valutazione del progetto, ma non sembra che al momento se ne profilino altre. Questa oltretutto presenta qualche altro vantaggio: occorre tenere conto che la proposta del progettista è fortemente condizionata dalle richieste del committente raramente illuminato, la prefigurazione del percorso valutativo corretto permette al progettista di disporre di argomenti in difesa del proprio progetto premiando il committente con i tempi brevi per il rilascio dell’autorizzazione e la garanzia di superare eventuali opposizioni che fossero sollevate nel corso di realizzazione delle opere.

Tuttavia altre possibilità potrebbero presentarsi prossimamente. Il giorno 16 luglio la regione Lombardia ha organizzato un incontro tra i rappresentati del Ministero dei Beni e delle Attività culturali (Ministro e Direttore generale) e rappresentanti di alcune regioni. Anche in questa occasione tra i temi trattati è stata data particolare attenzione alle procedure autorizzative. Al fine di apportare qualche semplificazione è stato deciso di programmare a Roma incontri congiunti per individuare livelli di intervento di minore impatto da sottrarre a percorsi procedurali complessi.

A fronte di consimili iniziative occorre tenere sempre alta la guardia. Il paesaggio è un bene collettivo che deve essere salvaguardato. Lo si ripete spesso, ma non deve essere un mantra ipnotico. Si ricordi che procedure semplificate non può significare lasciare correre nelle fasi di controllo, questo ha generato progetti di grande impatto non sufficientemente valutati per le ricadute sul territorio e inoltre è bene far tesoro dell’osservazione nel tempo che ci insegna che le grandi trasformazioni dell’immagine dei paesaggi sono dovute all’attuazione di piccoli interventi, che proprio perché di presunta lieve entità non sono stati adeguatamente considerati come sistematica aggressione del territorio.

Rimane da sperare nel “disegno legge quadro in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo del suolo” che pone un limite al tetto dei terreni agricoli convertiti in aree edificabili, inserisce il divieto di mutamento di destinazione per quelli che hanno ricevuto un aiuto dall’Unione europea, e chiede l’abrogazione della normativa che concede l’uso degli oneri di urbanizzazione per il finanziamento delle spese correnti, presentato il 24 luglio dal Ministro Catania in una conferenza dal significativo titolo “Costruire il futuro: difendere l’agricoltura dalla cementificazione“.

 

Umberto Vascelli Vallara

 



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