11 settembre 2012

BRAND NON È NÉ VENDITA NÉ PROPAGANDA


Dopo l’avvio seminariale (un incontro ai primi di luglio “fuori porta” promosso dall’assessore D’Alfonso, presente il sindaco Pisapia, gli assessori al Turismo di Regione e Provincia e i vertici di aziende pubbliche del sistema-Milano, a cui si è aggiunto il presidente di Assolombarda) il radicamento di una iniziativa di analisi e management sul tema del “brand di Milano” sta per entrare nel vivo con obiettivi serrati che guardano sia a Expo 2015 sia ai confini più larghi che la materia impone.

I giornali hanno dedicato spazio all’argomento, soprattutto il Corriere della Sera che ha ospitato nel corso dell’estate editoriali e prese di posizione. Forse è piaciuta l’espressione brand Milano (nella città della comunicazione e della pubblicità poteva funzionare, come poteva trovare nemici precostituiti); ma più probabilmente è diffusa l’idea che ogni trasformazione – e Milano è in tante visibili transizioni – richiede due cose serie: ricapitolazione identitaria e visione degli approdi. Una politica di branding pubblico è buona sintesi delle due cose. Opera sull’evoluzione del patrimonio simbolico della città e della sua comunità. Evolve seguendo il modo con cui quella comunità rappresenta i suoi profili identitari. Ciò nel naturale conflitto di potere che quel racconto comporta e misurandosi ovviamente con il racconto, buon e cattivo, che altri fanno. E registrando il modo con cui l’opinione pubblica esterna (nazionale e internazionale) seleziona e trattiene frammenti di quella rappresentazione. Coniuga quei frammenti (nel bene e nel male) con gli stereotipi che resistono e, alla fine, conferma o modifica l’immagine di quella città.

Da questo profilo derivano i ranking di reputazione, che mettono Milano nella “fascia due” delle grandi città (dalla ventesima alla trentesima posizione) e che si traducono in molti indicatori di attrattività: turismo, lavoro, capitali, buone idee, feeling culturale, influenza, eccetera.

Per questo il dibattito appena avviato va preso sul serio. Perché una cosa fondamentale determina la riuscita di un progetto di questa natura: che vi sia ampia condivisione di metodo su cosa e come gestire una materia così delicata (vale il trattamento dell’identità collettiva come per ciascuno di noi vale quello della propria personale identità). E perché il progetto sia accompagnato da adeguata (seria e non propagandistica) comunicazione. Insieme conta il dialogo tra istituzioni e sistema di impresa e conta la collaborazione con i programmi educativi e culturali della città.

Sia concessa quindi qualche chiosa agli spunti di discussione che sono stati proposti.

In generale è percepita ora meglio l’idea che sia necessario porre il tema identitario alla base di una spinta attrattiva che Expo e di più il bisogno competitivo della città sollecitano. Dopo di che nel dibattito c’è qualche confusione. Chi dice: ma che brand, conta l’attrattività (ma che è appunto la determinazione del brand stesso). Un altro dice: macché marketing, conta l’uomo (certamente, ma è la collettività umana che si racconta per svolgere il suo piano di crescita). Un terzo dice: ma quale attrattività, ci vuole glamour (anche qui, come dire di no, ma se sei al 26° posto nelle classifiche di immagine e non al primo è perché c’è chi ha più storia da raccontare o ha trovato percorsi più brillanti di racconto).

Distinzioni non gravi. Chi vuol dure qualcosa deve anche non star nel coro e i media incoraggiano un po’ di conflittualità. Siamo nella fase in cui il lessico ancora un po’ divide. Ma diciamo tutti in fondo la stessa cosa: il brand non è tanto segno grafico quanto ricapitolazione identitaria cangiante. Attorno alla capacità di una comunità di leggere, interpretare e modificare il proprio patrimonio simbolico c’è qualcosa di antico e modernissimo che va coniugato con tre parole: potere, parola, popolo.

* I poteri chiedono di essere rappresentati. E una città plurale, che da secoli non ha un solo potere gestito verticalmente, esprime una complessa e soprattutto conflittuale rappresentazione. In questo teatro prevalgono valori simbolici, altri coesistono, pochi riescono a trovare la comunicazione esterna, nel pugno di una mano stanno quelli che si radicano nell’immaginario collettivo del pianeta. Aver chiaro il meccanismo aiuta a fare appello a storia, politica, economia, scienze sociali per capire come si genera il conflitto rappresentativo e come esso si declina imponendo una “immagine”.

* La parola è dunque essenziale vettore. Tranquillizzo chi – nel suo incoraggiante editoriale Marco Garzonio lo ricorda – non vuole ridurre a tecnica di marketing (cioè di vendita) questa partita. No, essa è prima di tutto questione di auto-rappresentazione, di capacità di diagnosticare la propria traiettoria storica. Poi di saperla raccontare. Ha detto bene Franco D’Alfonso, replicando al pubblicitario Nicola Zanardi, che l’apertura delle Olimpiadi di Londra ha mostrato che la questione era la storia da raccontare, non la scritta London 2012. Ma ha anche ragione Carlo Sangalli quando chiede di non limitare alla forma la comunicazione perché in sé ogni processo comunicativo serio muove interessi, fa camminare economie, spinge dinamiche di impresa. Gianni Ravelli ha aggiunto: Londra è glamour, Milano no, partiamo svantaggiati. Si e no. È evidente che affrontando questo tema – parallelo e diverso rispetto a quello del turismo, che ha permesso negli ultimi anni di chiarirci le idee sul competitive set reale di Milano – anche sul terreno dell’immagine (accoglienza, rifiuto, attrazione, repulsione) si deve definire il competitive set della città. Non tutti i paragoni sono leciti. Milano deve far coesistere storia dello spirito, dell’industria e della creatività. Ragionare su quali sono le città nel mondo con cui si compete diventa strumento utile a tutti.

* Infine chi decide? Il branding pubblico non prevede “proprietari”, non c’è il commenda che, dalla crescita di immagine magari pompata con un po’ di pubblicità, ricava aumento delle sue azioni. Qui conta il vissuto collettivo che trasferisce realtà e contano vettori che agiscono meglio di altri in questo trasferimento. L’analista inglese Simon Anholt non a caso parla di “identità competitiva“, non di “immaginario competitivo”. Dunque conta la gente, conta l’opinione pubblica, conta l’organizzazione della cultura nel territorio, conta il mondo del lavoro e dell’impresa che parlano di sé, conta la storia scritta nell’urbanistica e nel beni culturali. Contano i valori e conta la democrazia. Alcuni dittatori hanno pensato di sostituire il loro progetto di immagine a quello generato dalla storia e dalla verità sociale: la storia del ‘900 ci ha detto che fine hanno fatto.

Ci sono insomma le premesse per un percorso di avvicinamento. Tra le persone, tra le parole, tra gli obiettivi. Nel mese di settembre sarà possibile rendere esplicito il programma di lavoro, fatto di momenti di studio e di analisi ma anche di eventi e di pubblica condivisione.

 

Stefano Rolando*

 

 

*Professore Università Iulm, presidente del comitato di indirizzo brand Milano nell’ambito del progetto promosso dal Comune di Milano in materia di branding e promozione turistica.



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali




Ultimi commenti