22 novembre 2011

LA CITTÀ BELLA: SALVARSI IN TEMPO


Secondo il filosofo americano James Hillman, recentemente scomparso, la più grave rimo-zione del XX secolo è quella della bellezza che è scomparsa dalle aspirazioni della civiltà occidentale dominata dal dio denaro. Le nostre città hanno dunque risentito di questa mancanza. Dello stesso tono sono le conside-razioni dell’antropologo Marc Augè sulla defini-zione dei non luoghi che abbondano nelle nostre aree urbane dove si registrano gli ec-cessi della “surmodernitè”: eccesso di spazio, di tempo e di individualità.

E’ sintomatico quin-di che oggi per parlare di bellezza si debba partire dalla bruttezza e in prima battuta definire cosa sia. Ricorriamo allora al mondo antico, che certamente si è occupato più di noi del problema, cioè a Plotino che affermava essere brutto quello che viene trascurato e rifiutato, vale a dire quello che non riceve attenzione e cura. Negli agglomerati urbani del mondo globalizzato proliferano le parti rifiutate da una cultura dicotomizzata e superficiale. La crisi estetica ha dunque condotto anche alla crisi ecologica, all’inquinamento e allo spreco di risorse.

E’ chiaro che oggi quando si parla di bellezza di una città non si può essere univoci perché il concetto è variamente interpretato dalle diverse etnie, gruppi umani e city-users che coabitano in aree urbane che raggiungono anche decine di milioni di abitanti ma si può unificare il paradigma di partenza, nel senso che non vi può essere bellezza senza rispetto per la vita. Hillman affermava che la difficoltà di definizione del termine deriverebbe dal fatto che esso è il fondamento della vita stessa, il cosmos degli antichi Greci che appare solo se torniamo a Venere, la dea dell’amore e della piacevolezza dei sensi. Per Vitruvio venustas è uno dei tre attributi della buona architettura insieme a utilitas e firmitas. Ma torniamo al rispetto per la vita e alla crisi ecologica.

Possiamo oggi affermare che le città globalizzate favoriscano una vita piena a tutti gli abitanti? Possiamo dire che sono cariche di simboli del potere che vuole esibirsi, come sempre ma che oggi la dimensione del fenomeno è tale da contribuire a opprimere più che liberare le aspettative di felicità. Stendhal affermava che la bellezza è una promessa di felicità. La repressione del bisogno di bellezza infatti, usando ancora la metafora di Hillman, ha liberato i Titani e il titanismo lo troviamo in tutte le espressioni della città contemporanea, come del resto il concetto di massa, insieme di individui senza identità. Oggi il titanismo si rivolge alla massa educata dai media asserviti ai poteri forti e l’architettura segue questa logica. Se un tempo aveva come finalità il bello attualmente ha come preoccupazione l’effetto sui media per accontentare una committenza arrogante. Dove la politica è ridotta a marketing televisivo era inevitabile questa caduta.

Qualche tempo fa è apparso sul Corriere della Sera un dibattito sulle opportunità offerte agli archistar di progettare per regimi tirannici: è evidente il legame tra presunta libertà dell’artista e un potere che non ha bisogno di consenso ma questo accade anche nei regimi cosiddetti democratici, il titanismo è globale. Si è andati dalla qualità alla quantità. Ernst Schumacher scriveva piccolo è bello perché per il pensiero ecologico è necessario ritornare alla ricerca dell’armonia che nel caso delle città si traduce in ricerca della giusta dimensione, tra tradizione e sviluppo, tra natura e cultura, e di un’urbanistica partecipata, dove gli abitanti non siano sudditi ma cittadini e quindi i valori divengano quelli del benessere e della creatività.

La città è più bella quando le sue strutture sono volute da un potere concepito come servizio, quando cioè non impediscono lo svolgersi del vivere ma bensì lo facilitano. Ecco il rispetto per la vita che denota la bellezza. La megadimensione, l’omologazione e la trascuratezza, tipiche del titanismo del XX secolo, non solo non facilitano l’esistenza ma la deprimono diminuendo il livello di creatività necessario a una vita migliore.

Nel 1975 il sociologo e urbanista Roberto Guiducci pubblicava il saggio La città dei cittadini come speranza e progetto di un’urbanistica partecipata. Sono passati più di trent’anni ma questo sogno è rimasto tale. Milano non ha ancora completato il suo processo di trasformazione da città industriale a città del terziario avanzato, è in bilico tra passato e futuro. Come in altre aree urbane, a volte la partecipazione è stata una vuota parola che si è prestata a coprire situazioni confuse e demagogiche mentre i poteri forti hanno continuato a fare i loro interessi, spesso lontani dalle esigenze reali della comunità.

Del resto l’interpretazione dei bisogni è diventata sempre più complessa e la vita cittadina sempre più degradata. L’Urbs si è imbarbarita e la Civitas ha perso la sua identità. Sono sul tavolo vecchi problemi ancora senza soluzione (mobilità, trasporti, traffico, qualità dell’aria ecc.) e se ne sono aggiunti di nuovi (immigrazione, sicurezza, integrazione di nuove etnie, periferie ecc.). Così sono sorti accaniti dibattiti intorno alle grandi opere, alla competenza dei consigli di zona, si sono moltiplicati i comitati di cittadini che in genere si battono per un miglioramento della qualità della vita, si è sempre più aperta la forbice tra abitanti ricchi e quelli più poveri, il costo della case è andato alle stelle.

Si è potuto constatare in sintesi che esistono due urbanistiche: una legata a poteri consolidati, secondo logiche parziali e separate, che hanno costruito la città rendendola opprimente e che vogliono disegnarne un futuro appariscente aumentando ancor più i problemi di sostenibilità e l’altra che vorrebbe ridisegnare una città più umana e secondo una logica d’insieme. Questa seconda è alternativa sia nelle idee sia nelle forze che la reggono. Le sue radici stanno nei comitati, nelle comunità, nei consorzi, nei sindacati, nelle associazioni democratiche della società civile, tuttavia poco incide sulle decisioni generali che spesso richiedono scelte coraggiose e orientate e livelli di pianificazione territoriale molto più grandi.

 

Maurizio Spada



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