1 febbraio 2011

arte


 

ADDIO AD OPPENHEIM, RE DELLA LAND ART

  

Bus Home (2002)  Buenaventura, California

Il 22 gennaio scorso si è spento all’età di 73 anni Dennis Oppenheim, artista americano tra i principali esponenti della Land Art. Se ne è andato durante la notte, a causa di un tumore al fegato, mentre si trovava a New York. Oltre che esponente di spicco dell’arte paesaggistica, Oppenheim fu anche un artista concettuale noto per la sua attività nel campo della Performance art, della Body Art e della Video art. Nato nel 1938 a Electric City, Washington, negli anni Cinquanta frequenta l’università presso la California College of Arts and Crafts. Dopo aver conseguito nel 1965 il Master in Fine Arts alla Stanford University a Palo Alto, nel 1967 si trasferisce a New York, centro nevralgico della nuova arte. Lì lavora come insegnante in una scuola di Smithtown, Long Island.
 

E’ dell’anno successivo la sua prima esposizione personale. Oppenheim fu tra i primi a utilizzare la performance e la videoarte come modalità di espressione artistica. Il suo lavoro fu sempre caratterizzato da una ricerca continua di nuovi mezzi e materiali, che lo portarono a confrontarsi con diverse tecniche e situazioni, dalla scultura, alla land art, alla fotografia alle istallazioni video. Per creare la sua prima opera, del 1967, assolutamente sperimentale e di rottura, fu ispirato dalle orme lasciate sulla neve dalla sua classe di studenti intorno a un campo da calcio.
Questi segni suggerirono a Oppenheim l’idea per la realizzazione di ”Earthwork: il buco del terreno”. Un’opera costruita per assenza. Lo spazio è infatti uno spazio negativo, poiché l’oggetto non c’è, ma allo stesso tempo vi sono contenuti il senso di mobilità e il senso di inamovibilità delle impronte stesse. Un’azione che è solo apparentemente semplice, ma che in realtà già manifesta la profonda radicalità dell’orientamento alla base degli Earthworks. Lavori creati soprattutto su campi innevati e fiumi gelati in cui l’azione, il tracciato di solchi o cerchi concentrici, aveva un carattere del tutto effimero, data la “non consistenza” di questi soggetti. Ecco perché nei suoi lavori le forme transitano da una situazione all’altra, da un materiale all’altro, in una metamorfosi continua che mette in discussione le regole costituite dell’arte, dell’architettura e del design. Come nel caso dei bellissimi “Device To Root Out Evil“, 1997 e “Journey Home“, del 2009.

Artista controverso, Oppenheim si è dedicato soprattutto alla realizzazione di grandi installazioni in spazi pubblici nelle principali città del mondo, alcune di queste opere addirittura caratterizzate dall’attivazione tramite i movimenti del pubblico stesso. Una poetica che si esplicita nella presa di possesso di uno spazio che, dopo interventi e modifiche, viene riproposto come opera d’arte sotto forma di fotografia o di installazione. Celebrato dai più grandi musei del mondo con mostre e retrospettive, Oppenheim ha partecipato nel 1997 alla Biennale di Venezia. I suoi ultimi lavori risalgono al 2010, due opere pubbliche fatte di luci per la città di Toronto (Still Dancing), e per l’aeroporto di Houston, in Texas (Radiant Fountains). Due giochi di luce e forme che fanno sognare. Il mondo dell’arte ha perso un grande artista.


CHI PARTE E CHI ARRIVA. ANTICIPAZIONI DI UNA PRIMAVERA INTERESSANTE

Momento di considerazioni e anticipazioni sulla situazione delle mostre milanesi, presenti e future. Entriamo infatti nell’ultima settimana di apertura di diverse mostre, tra cui quella che è letteralmente stata il fenomeno dell’anno, la mostra di Salvador Dalì. Tante parole sono già state dette per descrivere questo artista e questa mostra, dai risultati incredibili, ma che appunto per questo merita che si spendano ancora due parole di “commiato”. Una mostra per cui sì, ci si aspettava un discreto successo di pubblico visto il nome assolutamente famoso e di richiamo di Salvador Dalì, ma che ha lo stesso stupito tutti per lo straordinario afflusso di visitatori. Non c’è stato giorno, o quasi, in cui la fila dei visitatori non è arrivata almeno fino alla piazzetta reale. Se non direttamente in piazza Duomo.

Coda sotto la pioggia, il nevischio, il freddo pungente, ore e ore per aspettare di vedere quella che è stato il successo dell’anno. Peccato che, una volta entrati dopo questa gran fatica, nelle sale, suggestive ma troppo anguste, si facesse fatica a muoversi e bisognasse di nuovo “mettersi in coda” per arrivare a vedere da vicino i quadri del pittore spagnolo. Tutto questo però non ha fermato i temerari visitatori che hanno affollato le sale della mostra a tutte le ore, usufruendo anche delle aperture straordinarie di Palazzo Reale in queste ultime settimane. Non senza però risparmiare critiche alla gestione degli spazi e degli ingressi. Per motivi di organizzazione, purtroppo questa mostra non sarà prorogata, per cui chi ancora si fosse perso questo evento, che resterà nella memoria (soprattutto di chi ci ha lavorato ogni giorno spesso in ardue condizioni), deve affrettarsi perché ancora pochi giorni lo separano dalla chiusura di questa rassegna sull’artista catalano.

Altrettanto importanti mostre in chiusura sono quella sulla scultura italiana del XXI secolo alla Fondazione Pomodoro, originale, divertente e molto rappresentativa, non finiremo mai di dirlo; quella sull’arte islamica al piano terra di Palazzo Reale, di qualità, interessante, specialistica, ma forse proprio per questi motivi non apprezzata fino in fondo dal gran pubblico; in chiusura anche il Capolavoro per Milano del Museo Diocesano, la “Natività” di Filippo Lippi, che a breve tornerà a Prato. Ma per tante mostre che se ne vanno, ne sono in previsioni altrettante nuove, tra originalità e vecchie glorie sempreverdi. Tre le nuove esposizioni che saranno ospitate a Palazzo Reale a partire dal mese di febbraio in poi.

La principale, quella su cui ci si aspetta un successo pari almeno alla metà di quello di Dalì, è la mostra sull’Arcimboldo. Un nome conosciuto per chi si intende d’arte, ma ancor più famoso, forse in modo inconsapevole, tra il grande pubblico, per i suoi quadri più noti: le celeberrime teste delle Quattro stagioni, della Flora e del Vertumno composti da frutta, verdura e fiori. Nature morte sotto forma di ritratti. Una mostra importante dal punto di vista delle opere esposte, dei nomi presenti e anche scientificamente valida. Lo scopo è quello di ridare peso agli anni milanesi dell’Arcimboldo, che tanto tempo invece lavorò a Praga e Vienna, per capirne maestri, retroscena e sviluppi. Non solo Arcimboldo dunque, ma una grande carrellata dai leonardeschi a Caravaggio per contestualizzare il suo operato.

Altra mostra nuova e decisamente originale sarà quella su “Alberto Savinio. La commedia dell’arte”. Fratello del ben più celebre Giorgio De Chirico, già simbolo di casa Boschi-Di Stefano, questa mostra ce lo fa conoscere meglio presentandocelo come un personaggio poliedrico e versatile, che con il suo lavoro ebbe a che fare non solo con l’arte in senso stretto, ma anche con letteratura, teatro, musica, architettura e mitologia. Un gradito ritorno è quello degli Impressionisti, a Milano da marzo, con una mostra itinerante, a più di dieci anni dall’ultima esposizione. Saranno esposti moltissimi capolavori della Clark Collection di Boston, e Milano è stata scelta proprio come prima tappa del loro tour europeo. Gli Impressionisti, in ogni loro versione, tema e accezione, hanno sempre attirato moltissimi visitatori, è ragionevole pensare che anche questa volta avranno un grande successo di pubblico.

Ultima mostra veramente rilevante è quella “intorno” a Caravaggio, “Gli occhi di Caravaggio”, presso il Museo Diocesano in data da definirsi, tra la metà di febbraio e quella di marzo. Una rassegna non su Caravaggio, si badi bene, ma sul periodo, ancora un po’ incerto, della sua formazione e dei suoi primi viaggi. Tanti nomi importanti per capire a chi, dove e come il grande maestro si ispirò agli inizi della sua attività, per poi creare il suo stile unico e inconfondibile. Insomma la primavera, che a livello espositivo è sempre stata un po’ in sordina, quest’anno si farà sentire in modo forte con tante nuove proposte diversissime tra loro, per accontentare tutti i gusti. Dai “capricci” dell’Arcimboldo (che faranno impazzire i bambini), agli evergreen dell’Impressionismo, alla pittura magica di Savinio, per finire con uno dei più grandi, Caravaggio.

 Arcimboldo. Artista milanese tra Leonardo e Caravaggio. Palazzo Reale, dal 10 febbraio al 22 maggio. Savinio. La commedia dell’arte. Palazzo Reale, dal 25 febbraio al 12 giugno. Gli Impressionisti. I capolavori della Clark Collection. Palazzo Reale, dal 2 marzo al 19 giugno. Gli occhi di Caravaggio. Museo Diocesano.


 JOSEPH KOSUTH DA LIA RUMMA

Dopo la mostra di Ettore Spalletti, che inaugurò il nuovo spazio della galleria, Lia Rumma, signora delle gallerie italiane, chiese a un amico di vecchia data di crearle qualcosa “site specific”, concepito appositamente per il nuovo, grande, enorme spazio della galleria in via Stilicone. Ecco comparire in scena Joseph Kosuth, artista concettuale americano. L’entrare nello spazio al pian terreno è già un’esperienza. Un cubo tutto nero, modificato apposta per l’occasione, avvolto nella penombra, in cui spiccano grandi frasi al neon, i Texts for Nothing.
Frasi prese niente meno che dal lavoro di Samuel Beckett del 1954, che appunto presta il titolo anche all’installazione. Texts for Nothing è un lavoro basato su una selezione di frasi, in inglese e in italiano, composto da 19 opere singole realizzate in neon bianco a luce calda e ricoperte di nero. Alcune perfettamente leggibili, altre in modo un po’ sfocato, per cui lo spettatore deve cercarsi il proprio ottimale punto di vista per leggerle.

Se per anni questi testi sono stati poco considerati dalla critica drammaturgica beckettiana, per Kosuth invece sono sempre stati un punto di partenza fondamentale. Un lavoro quasi parallelo, quello svolto da Beckett e Kosuth: in entrambi l’arte e la sua creazione mostrano un forte legame nella relazione con il significato. Beckett affronta la questione del significato a partire dalla sua assenza, Kosuth al contrario si concentra nella produzione del significato. Un lavoro peraltro senza fine, un processo che inizia ma che può procedere all’infinito, continuando per continua assenza.

“Costituendo linguaggio in sé, il lavoro si autodescrive come un’assenza, un’assenza dalla quale possono fluire le nostre domande sul significato” ha spiegato Kosuth. Nessuno ha mai detto che l’arte contemporanea fosse facile.

La mostra continua poi al primo e secondo piano con una raccolta di nove opere storiche di Kosuth, An Uneven Topography of Time/Un’Irregolare Topografia del Tempo, il cui soggetto principale è il tempo, dal 1971, anno in cui l’artista aveva inaugurato la prima galleria della Rumma a Napoli, a oggi. Si possono trovare quindi le famose sedie, nella serie delle “Eighth Investigations”, 1971; gli altrettanti celebri orologi, le definizioni di tempo, oggetto e orologio tratte dal dizionario, e ancora neon e foto su “Art as Idea as Idea”, 1966. Un lavoro cervellotico, difficile da capire a un primo impatto, ma così è l’arte concettuale e il lavoro di Kosuth, che ha dagli anni Sessanta ha esplorato il significato e la produzione del linguaggio. Una mostra sicuramente interessante, suggestiva, che porta a far riflettere sul significato di alcune categorie, come quella del tempo, e sul messaggio che l’arte concettuale di oggi vuole esprimere.

Joseph Kosuth, “Texts for Nothing”, Galleria Lia Rumma, via Stilicone 19, Orari: da martedì a sabato, dalle 11:00 alle 13:30 e dalle 14.30 alle 19:00
Ingresso libero.


BENVENUTO, NOVECENTO!

Dopo tre anni di lavori, progetti e polemiche si è finalmente inaugurato il Museo del Novecento nello storico palazzo dell’Arengario, completamente rinnovato, con oltre 5 mila metri quadrati di spazio per ospitare le oltre 400 opere delle Civiche Raccolte milanesi. Grande evento mondano è stata l’inaugurazione stessa, avvenuta il 6 dicembre, alla quale hanno partecipato volti noti della cultura e della politica milanese. Un progetto innovativo e futuristico, più un’istallazione che un’architettura, come racconta Italo Rota, architetto responsabile del progetto. Grandi vetrate, scalone a spirale che ricorda il Guggenheim di New York, nicchie e passerelle che collegano l’Arengario col primo piano di Palazzo Reale.

A coronamento di questo edificio l’enorme Neon di Lucio Fontana, progettato nel 1951 per la IX Triennale, ed esposto in una terrazza vetrata che domina la piazza del Duomo e diviene faro e simbolo del museo stesso. E poi un ristorante nella Torre, un bookshop ben fornito e spazi per la didattica, oltre che luoghi in cui è possibile sostare. Un museo come non ce n’erano mai stati a Milano, ma che oltre ai pregi inconfutabili, tra cui quello di raccogliere in un solo luogo pezzi fondamentali della storia artistica milanese ma non solo, si porta dietro, quasi inevitabilmente, uno stuolo di polemiche. A cominciare proprio dall’inizio del percorso espositivo. Dopo un ingresso avveniristico, con armadietti luminosi e monitor appesi al soffitto, si sale l’enorme rampa spiraliforme che conduce ai vari piani del museo.

Ma c’è un primo “problema”. Sulla sinistra, quando meno te lo aspetti, ecco comparire l’enorme tela del Quarto stato di Pellizza da Volpedo, prelevata dalla sede storica della Galleria d’arte moderna e messa in una nicchia dal fondo nero. Proprio questa nicchia è divenuta oggetto di questioni e polemiche. Una collocazione poco adatta, troppo poco visibile per un quadro di quella importanza, significato e dimensioni. Dovrebbe aprire idealmente il percorso storico artistico. Si trova relegato in un punto di passaggio: quasi ci si passa davanti senza accorgersene, anche per il fondo troppo scuro su cui è posto. Il percorso prosegue poi in modo più funzionale. Aprono le danze alcune opere della collezione Jucker, prima conservata a Brera; la favolosa serie dei quadri di Boccioni, Carrà, Balla e degli altri Futuristi, con la famosissima scultura di Boccioni Forme uniche nella continuità degli spazi, esposte in sale con pannelli color crema e colonne di marmo.

Si prosegue poi con gli anni Venti e Trenta e le sale monografiche di Morandi, De Chirico, Martini.Il percorso continua in ordine cronologico. Il ritorno all’ordine del gruppo di Novecento, gli antagonisti della Scuola Romana, i Chiaristi, De Pisis. Si incontrano poi, in un continuo dentro e fuori un po’ labirintico, Manzoni e Burri, il Gruppo T, l’Arte Povera, Marino Marini. Lucio Fontana ha una sala tutta per sé che si affaccia sul celebre Neon e dove è possibile ammirare, nel mezzanino, il famoso soffitto realizzato da lui nel 1956 per la sala da pranzo dell’Hotel del Golfo di Procchio all’Isola d’Elba, decorato con segni, tagli e incisioni operati direttamente sull’intonaco fresco e riempiti di colori puri. Soffitto che ha subito rocambolesche vicende e che stava per essere distrutto nel corso di un radicale intervento di ristrutturazione dell’edificio. Solo la Soprintendenza di Brera e la Fondazione Fontana con il loro intervento, hanno permesso il salvataggio del soffitto.

Al centro dell’edificio scorre un imponente impianto di doppie scale mobili. Un po’ centro commerciale, un po’ Centre Pompidou. Una parte molto importante è quella dedicata all’arte davvero contemporanea, che è ospitata nel piano superiore di Palazzo Reale, collegato da una passerella che conduce in sale grandi e adatte alle dimensioni fuori misura di certe opere. Rotella, Pistoletto, la Land art, la Pop art, l’arte concettuale, istallazioni ottiche e reali in cui lo spettatore può entrare e lasciarsi “stordire” dai giochi di specchi, luci, suoni. Finalmente a Milano un museo di arte contemporanea degno di questo nome, nel cuore della città. Con un ultimo interrogativo.

E Casa Boschi-Di Stefano? Moltissime opere esposte al museo provengono da quello straordinario ambiente espositivo che era la casa dei coniugi Boschi. Certo, questo trasferimento era già in programma fin dai tempi della loro donazione, ma sicuramente la fisionomia di questa casa-museo è radicalmente cambiata e forse anche snaturata. Rimane Savinio, simbolo della “casa”, ma se ne sono andati importanti e altrettanto significativi Sironi, De Chirico, Manzoni e Fontana. Come fare per non cambiare la fisionomia della casa-museo ma allo stesso tempo permettere di avere una visione globale della storia artistica del Novecento? Questa l’ardua questione. Per ora ci accontentiamo di questo nuovo e veramente attuale museo, gratuito fino al 28 febbraio.

 Museo del Novecento, Palazzo dell’Arengario, Piazza Duomo, Orari: lun 14.30 – 19.30, mar mer ven dom 9.30 – 19.30 giov sab 9.30 – 22.30 Ingresso gratuito fino al 28 febbraio 2011

 

 

questa rubrica è a cura di Virginia Colombo

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 



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