25 gennaio 2011

FIAT: PROVE DI DEMOCRAZIA PROPRIETARIA


La vicenda Mirafiori sollecita riflessioni su alcune importantissime questioni. Tra queste, fondamentale, il tema della democrazia e della rappresentanza sui luoghi di lavoro. Mi permetto, per una migliore comprensione del filo di ragionamento, di ricapitolare alcune brevissime premesse: a) il capitalismo, come schema sociale, presuppone necessariamente la presenza di due soggetti nell’impresa: il capitalista (*) e i lavoratori; b) i lavoratori non si sottoporrebbero al comando del capitalista se non fossero costretti dal bisogno (la postmodernità nulla toglie e nulla aggiunge a questa verità premarxista); c) la costrizione fonda al tempo stesso il rapporto, il contenuto, e l’asimmetria dei poteri e delle facoltà tra capitalista e lavoratori; d) per contrattare la loro condizione (salario, ritmi, salute…), i lavoratori si costituiscono come soggetto collettivo e autonomo nei confronti del capitalista; e) le regole per la definizione dei principi e delle modalità con cui i lavoratori si costituiscono come soggetto sono state sempre le più significative e controverse, essendone chiaro l’effetto sul conflitto tra lavoro e capitale.

La cosa è tanto vera che l’art. 17 dello Statuto dei Lavoratori stabilisce senza mezzi termini che “è fatto divieto ai datori di lavoro e alle associazioni di datori di lavoro di costituire o sostenere, con mezzi finanziari o altrimenti, associazioni sindacali di lavoratori“. La pretesa del capitalista di determinare egli stesso le forme della democrazia e della rappresentanza dei lavoratori è un riflesso della concezione viscerale che lo vede “padrone di tutto ciò che paga“, e quindi anche delle anime degli operai sul posto di lavoro. E non importa se questo sentiment sia o meno addolcito da qualche buffetto paternalistico: “dato che lo pago, l’operaio non dovrebbe avanzare pretese, ma, se proprio si deve accondiscendere a questi modernismi, sarò io a definire le regole del gioco”. Sono le rozze premesse morali della democrazia proprietaria.

Delle ragioni storiche poste alla base dell’art. 17 dello Statuto si sono poi quasi perse progressivamente memoria e significato, essendo da noi così lontane non solo le iniziative antisindacali di un Valletta ma anche il clima sociale in cui il principio del lavoratore come soggetto di diritti nella fabbrica era assai lungi dall’essere accettato. La vicenda FIAT ci rinfresca la memoria annebbiata e si spinge a una attenta e preoccupata riflessione. Dunque, la materia della democrazia e della rappresentanza ha visto storicamente il progressivo affermarsi motu proprio della soggettività del lavoratore e con esso, a prezzo di durissimi conflitti, il riconoscimento anche da parte del capitalista, allontanando quella visione del lavoratore come oggetto, fattore produttivo inerte, merce, idoneo solo a essere utilizzabile dal suo compratore per produrre valore.

D’altra parte è anche vero che il medesimo riconoscimento venne simmetricamente effettuato dal lavoratore verso il capitalista, cosa neanche tanto scontata se si pensa alla radicalità delle lotte sociali della prima metà del ‘900 e ai furori ideologici sessantottini. Non bisogna infine dimenticare che la nostra cara Costituzione afferma all’art. 1 (!!) che la Repubblica è fondata sul lavoro e non sull’impresa. Nella dialettica Lavoro – Capitale, è pur sempre il Lavoro la fonte primaria della vita e della ricchezza sociale e non l’Impresa (capitalistica), non la particolare forma storico giuridica nel cui quadro oggi e per lungo tempo ancora si troverà a operare. Affermare la primarietà del valore (il Lavoro) e non riconoscere quella del suo portatore (il Lavoratore) è un’operazione evidentemente impossibile.

Cosa accade invece ora con il recente Accordo separato di Mirafiori? Accade che la rappresentanza dei lavoratori, il loro essere soggetto autonomo, è subordinata al preventivo riconoscimento del padrone – imprenditore. Accade che i lavoratori e le organizzazioni sindacali che non accettano la “proposta” di contratto della controparte non sono più soggetto autonomo, non esprimono rappresentanza, non hanno voce in capitolo, non esistono. La restrizione della Rappresentanza viene “giustificata” sulla base dell’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori, ma va ben detto che si tratta di un vero falso (si perdoni l’ossimoro) sostanziale: nell’originaria stesura del 1970, la rappresentanza veniva garantita indipendentemente dalla sottoscrizione di contratti collettivi (**), mentre solo con il successivo referendum radicale del 1995, veniva ristretta ai soli sindacati che stipulano accordi, in modo che sindacato e lavoratore esistono come soggetti solo ed esclusivamente se il padrone – imprenditore li riconosce, ovviamente alle sue condizioni. L’intento dei radicali non era di ridurre la rappresentanza, ma semmai di allargarla anche a chi, al di fuori del sindacato, era tuttavia in grado di stipulare accordi, come esito di un effettivo processo partecipativo ma il risultato ha tradito le intenzioni: si sa, delle buone intenzioni…

Ma la prova fondamentale dell’intento discriminatorio, ideologico e politico, dell’accordo Mirafiori, insomma la “pistola fumante”, si trova nella previsione in base a cui i rappresentanti sindacali non vengono più eletti dai lavoratori ma nominati (sicut Porcellum Calderoliensis) da quei sindacati che hanno sottoscritto l’Accordo con quel capitalista che, a sua volta, con il suo volere li può riconoscere o meno. A parte la rottura generale del principio elettivo, non si sfugge al sospetto che la clausola di nomina dall’alto sia stato introdotta proprio allo scopo di evitare che operai “dissenzienti in pectore” fossero autonomamente scelti dai loro colleghi o che, peggio ancora, i lavoratori, indipendentemente dal fatto di avere votato si o no, scegliessero poi i propri rappresentanti per il valore, la capacità e l’autonomia. Pur di non porre in discussione il carattere di regime del nuovo assetto, CISL e UIL non si sono fermati neppure di fronte alla lesione irrimediabile del principio elettivo dei rappresentanti sul luogo di lavoro (del resto la tradizione CISL su questo punto parla chiaro). A quando una Nicole Minetti anche in fabbrica?

Marchionne, che è un ragazzo sveglio, gira il mondo globalizzato e culturalmente non è tributario della cultura partecipativo – consociativa delle relazioni industriali italiane, ha subito compreso la potenzialità dirompente del “nuovo art. 19”, norma “dormiente” nel sistema italiano, e brandendola come una clava ha reintrodotto la Democrazia Proprietaria, la democrazia ri-fondata sulla soggettività del proprietario. Viene ripristinata con feroce determinazione la primazìa padronale nella dialettica con il Lavoro: come nella Cappella Sistina, il Padrone Dio dà la vita toccando, con il suo indice vivificatore, quello dell’Uomo Lavoratore. Sei tutto con me, sei nulla senza di me.

Dunque questa è ora la triste condizione dei lavoratori di Mirafiori, prima ancora di quella della Fiom: esistono solo, e solo se, Marchionne è disposto ad accettare la loro firma su di un accordo da egli stesso predisposto. Ma sono “figli di un dio minore”, e con loro anche Cisl e Uil. C’è poco da gongolare, anche la loro autonomia è messa radicalmente in discussione: esistono in fabbrica solo perché sono stati riconosciuti dalla controparte! E sono stati riconosciuti solo perché hanno sottoscritto un Accordo alla cui elaborazione non hanno per nulla partecipato. Il loro rango è comunque stato leso in forma formidabile, e già fin d’ora dovrebbero chiedersi cosa sarà di loro quando, e speriamo che questo non avvenga mai, il capitalista – manager stipulerà un contratto indigeribile con un qualsiasi sindacato giallo, imponendo poi plebiscitariamente il suo volere ai lavoratori con la simpatica formula della “pistola alla testa”: accetti questo contratto capestro o vuoi perdere il posto di lavoro?

Certo, la manomissione delle regole della democrazia e della rappresentanza sui luoghi di lavoro, la riduzione ai minimi termini dell’autonomia sociale e sindacale, è l’effetto e non la causa prima del minor peso del lavoro nella società attuale, ma potrà accelerarne velocità e potenza, portandoci verso un mondo molto diverso e peggiore di quello attuale. Un mondo in cui i conflitti non troveranno più schemi regolatori generali, definiti e gestiti da soggetti collettivi sulla base di valori e prassi condivise, capaci di ricomporre positivamente le molteplici pulsioni e contraddizioni. Prevarrà una sorta di caos microconflittuale, disordinato e violento, basato solo sui rapporti di forza in ogni singolo ambito? Si svilupperanno sindacati alla Jimmy Hoffa, magari nei nuovi paradisi meridionali della imprenditorialità criminale mafiosa? E come si può pensare, in questo mondo, di chiedere ai lavoratori di essere soggetti creativi in termini di produzione, se gli si impone la riduzione di autonomia in termini di diritti? E quale sarà la reazione di quanti vengono estromessi dalla scena, dalla rappresentazione e dalla rappresentanza, dai diritti e dalla Parola stessa?

Siamo davvero certi che tacendo la parola non parlino altre lingue, assai più minacciose? Togliere la voce a chi chiede rappresentanza è davvero un sentiero assai pericoloso, lo abbiamo visto anche nella nostra storia presente. La vicenda Mirafiori ci parla di una rottura grave, di un vulnus, che va al più presto ricomposto, non nell’interesse specifico della FIOM e tantomeno per affermare in astratto valori e principi che fanno parte del nostro orizzonte culturale: c’è in ballo molto, molto di più. C’è la rottura del Patto Sociale su cui si è costruito l’edificio della nostra costituzione materiale dal dopoguerra a oggi, fondato su di un delicato equilibrio tra le istanze del lavoro e quelle del capitale. C’è quindi la messa in discussione dei presupposti essenziali della coesione sociale, del permanere tra i lavoratori di un orgoglioso senso di appartenenza nella società, della condivisione di regole eque e fatte vivere nella quotidianità, tutte pre-condizioni essenziali della tenuta del sistema Italia. C’è un principio di civiltà, prezioso perché storicamente affermatosi con tanta fatica e perché, smarrendolo, si può perdere la bussola della democrazia e della giustizia sociale.

 

Giuseppe Ucciero

 

(*) mi è ben chiara, ovviamente, la complessità che sottostà alla parola “capitalista”, evolutasi dalla storica persona fisica del “padrone” verso la pluralità di soggetti finanziari dell’azionariato di una grande impresa. Così come è altrettanto chiara la sua distinzione dalle mille e una articolazioni della figura del piccolo imprenditore. Ma qui si parla dei diritti dei lavoratori in una grande impresa multinazionale, e la parola “capitalista” mi pare comunque la più adeguata a rendere la nozione di un soggetto che, sia pure impersonale, detiene con il proprio capitale la proprietà dell’impresa, e ne affida la funzione di gestione a un manager, assumendosi peraltro la responsabilità delle sue iniziative. Che poi oggi, l’UAW (il sindacato dei lavoratori Chrysler) sia “il capitalista” dei lavoratori della FIAT introduce una questione delicatissima su cui non vi è spazio in questa sede.

 

(**) Nella sua originaria formulazione, l’art. 19 stabiliva che: “Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite a iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell’ambito: a) delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale; b) delle associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni, che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nell’unità produttiva.”. A seguito del referendum del 1995, il testo fu così cambiato: “Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite a iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell’ambito delle associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nell’unità produttiva“.



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