7 dicembre 2010

IL MUSEO DEL ‘900 A MILANO. UNA MOSTRA NON UN MUSEO


In queste pagine che mi ospitano da un paio di anni spesso ho cercato di affrontare i temi museografici che riguardano lo spazio dove si dovrebbe celebrare il raccordo dell’uomo con la storia non solo artistica, diventato, attraverso le sue opere, cittadino del mondo.

L’impresa non è delle più facili perché la complessità richiede più che mai una sintesi espositiva chiara soprattutto per chi non ha competenze specifiche di museologia e museografia. Queste due discipline, complementari tra loro, interagiscono attraverso il pensiero che deve combaciare e deve manifestarsi attraverso un’esposizione di opere (documenti, reperti) e quant’altro possa rappresentare il meglio prodotto dall’uomo nel suo passaggio sulla terra.

Lo spazio, per sua vocazione, deve interpretare il pensiero museologico (il pensiero critico) che spiega i perché di ogni reperto, delle sue aggregazioni, dei suoi significati espliciti e segreti lungo un percorso, idealmente circolare che, come nel caso del museo del ‘900, dovrebbe restituire i contenuti di un secolo vissuto da Milano e dal suo territorio cultuale. Negli ultimi 50 anni la museografia e la museologia hanno lavorato sulla velocità di trasmissione del pensiero, sulla flessibilità espositiva, sulla comunicazione e sui servizi necessari allo svolgimento del lavoro all’interno di un’istituzione nuova. Lo spazio del museo deve aiutare la rappresentazione dei contenuti con manufatti realizzati a regola d’arte. I materiali e le loro lavorazioni devono aiutare a trasformare la banalità in luogo d’eccellenza come hanno insegnato i maestri che hanno in questo campo lasciato le tracce di come le cose nate povere possono diventare preziose.

Per valutare l’importanza di un museo era necessario per prima cosa vistare i depositi, gli archivi,

i locali degli impianti, le aree destinate alle mostre temporanee, i laboratori di pronto intervento per le opere in uscita e in entrata, gli uffici per i ricercatori.

Se abbiamo scritto in molte occasioni che il 70 % dell’intera superficie di un museo doveva essere destinata ai suoi servizi e il 30% alle esposizioni e che questa ipotesi fortunatamente ha ispirato alcune istituzioni europee che si sono imposte per il loro lavoro che non è solo quello di appendere quadri ma anche di fare ricerca, ci accorgeremmo che quanto oggi è stato detto dal sindaco di Milano di fronte a trecento giornalisti è solo una parte di una verità troppo lontana da quell’eccellenza evocata con insistenza.

Da un lato quindi il museo del 900 di Milano assomiglia a una mostra temporanea le cui opere sono esposte lungo un percorso tortuoso, frammentario troppo spesso anonimo perché lo spazio era così pieno di limiti e d’impedimenti senza possibilità d’intervento. (Ma questo, nel nostro caso, non è vero.)

La rampa che si sviluppa attorno agli ascensori introduce alle esposizioni. Il Quarto Stato di Pelizza da Volpedo non ci accoglie, è presente in una nicchia protetto da un cristallo che riflette gli edifici esterni all’Arengario e non vi è profondità sufficiente per metterlo a fuoco senza bloccare il percorso del pubblico. Il percorso è fatto d’incontri noti, incontri con un tesoro donato da mecenati milanesi e no, con collezioni smembrate come quella di Marino Marini donata al Comune di Milano e raccolta in un’ala della Villa Reale di via Palestro. Il Maestro aveva seguito con Marina, la moglie, tutti gli sviluppi del progetto e della realizzazione secondo un ordinamento che seguiva il pensiero della vita di un artista che non aveva un inizio né una fine, come l’esposizione non aveva né un inizio né una fine mossa dal movimento perpetuo delle idee, lungo la traiettoria di un cerchio ideale.

Oggi una sala destinata solo ai ritratti e a una pomona espone un boschetto di piedistalli bianchi, mi dice un amico, ispirati al manico gigante di uno spazzolino da denti. E’ doloroso vedere l’uso di materiali poveri che rimangono poveri, zoccolini di alluminio sottili come la carta, serramenti al minimo che non reggono al confronto con la città antica, con il Duomo e con quel che rimane dell’Arengario che oggi si esalta perché i tempi sono cambiati. I dettagli sono spesso casuali, arrangiati in cantiere perché nessuno si accorgerà di nulla. Io mi accorgo ed ho il dono della sofferenza che mi fa vedere ogni cosa per quello che è.

Le banalità cadono, nella saletta delle conferenze che ci ospita, come grandine; qualcuno fa domande pertinenti relative alle collezioni di grandi artisti che risultano assenti all’appello del 900. Le risposte non sono convincenti ma frettolose. I temi sono importanti, varrebbe la pena parlarne ed è questa una delle ragioni per cui preferisco affidare alla scrittura il mio pensiero.

L’ingresso al museo non corrisponde all’uscita e per questo ripercorrendo a ritroso l’esposizione incontro il ” Torso di Giovinetto ” di Arturo Martini relegato in una stanzetta che mi era sfuggita.

L’opera è un tutto tondo che ” rappresenta una delle più singolari invenzioni di Arturo Martini …”.

(cito la scheda del catalogo.) La parte più interessante dell’opera è rivolta verso il muro e non si può vedere.

Forse se questo museo fosse una mostra si potrebbero rivedere almeno alcune scelte evitando quei confronti che lo relegherebbero tra le istituzioni sorpassate da un pensiero che è andato assai oltre e di cui non si è voluto tener conto.

 

Antonio Piva



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