9 novembre 2010

NOI INCAPACI DI COMMEMORARE


 

La guerra civile americana ebbe il suo culmine con la battaglia di Gettysburg, le tre sanguinose giornate che al prezzo di quasi centomila tra morti e feriti segnarono la svolta definitiva della Guerra di Secessione, determinando la vittoria del Nord unionista. Soli quattro mesi dopo il Presidente Lincoln, a guerra ancora in corso, inaugurava il Cimitero dei caduti pronunciando un memorabile discorso affermando l’ideale che a Gettysburg nessun soldato, dell’Unione o della Confederazione, del nord o del sud, era morto invano: “(…)
noi non possiamo inaugurare, non possiamo consacrare, non possiamo santificare questo suolo. I coraggiosi uomini, vivi e morti, che qui combatterono, lo hanno consacrato al di là del nostro piccolo potere di aggiungere o detrarre. Il mondo noterà appena, né a lungo ricorderà ciò che qui diciamo, ma mai potrà dimenticare ciò che essi qui fecero. Sta a noi viventi, piuttosto, il votarci qui al lavoro incompiuto, finora così nobilmente portato avanti da coloro che qui combatterono. Sta piuttosto a noi (…) che qui solennemente si prometta che questi morti non sono morti invano; che questa nazione, guidata da Dio, abbia una rinascita di libertà; e che l’idea di un governo di popolo, dal popolo, per il popolo, non abbia a perire dalla terra.”

Da quel giorno del novembre 1863 per settantacinque anni, fino al novembre 1938, tutti gli anni finché rimase in vita un combattente delle giornate di Gettysburg, il presidente americano – ultimo fu Roosevelt – ritornava in questa località della Pennsylvania a ricordare a tutti i suoi compatrioti il valore dell’ Unità repubblicana. Nessuno tra i quindici presidenti che hanno officiato la commemorazione, per quanto provenissero talvolta dal Sud sconfitto e sempre eletti da una maggioranza di “parte”, si è mai sognato di cogliere l’occasione per modificare i dati della storia, dire che gli sconfitti “avevano ragione” o che il generale Sherman avesse commesso crimini di guerra durante la marcia di “conquista” del Sud, anche se gli stessi sono documentati e i cui effetti di “terra bruciata” si sentono ancora in qualche landa della Georgia descritta in “Via col vento”.

In sostanza la grande lezione di un popolo niente affatto pacifista, di governanti che pagarono la fedeltà ai principi come Lincoln, il cui assassinio fu architettato proprio dopo il “Discorso” citato, è che la memoria condivisa è il riconoscimento delle ragioni di tutti e la pietà e la dignità dei caduti, non il prolungamento all’infinito del conflitto oppure una nuova stesura della storia nei momenti ufficiali, né tantomeno l’annullamento delle differenze e il valore delle stesse.

Pensavo a questa straordinaria lezione che si perpetua da quasi due secoli senza occultare una realtà quotidiana politica e sociale che è ancora pervasa da nuovi e vecchi conflitti, a questa capacità di rendere il momento di massima crisi della convivenza civile tra gli americani come il momento simbolico delle ragioni ritrovate dello stare insieme, del raccontarsi il proprio presente e il proprio passato come trama comune del vivere assieme, mentre celebravamo sotto una pioggia battente il ricordo dei caduti della Resistenza lo scorso 1 novembre al Campo della Gloria al Cimitero Maggiore di Milano.

Che tristezza la partenza di due cortei diversi, uno che andava al campo dei caduti repubblichini e l’altro composto dai superstiti dei campi di concentramento e dei partigiani, con il quale siamo andati a sentire i discorsi “ufficiali”. E che sconforto dover ascoltare accenti diversi, sottili distinguo nelle parole di alcuni oratori impegnati a cercare di non scontentare qualche frangia del proprio elettorato ancora sensibile ai richiami della nostalgia che potremmo definire “canaglia” nel senso etimologico del termine!

Dopo sessantacinque anni non siamo ancora riusciti ad affermare quello che Lincoln affermò dopo sessantacinque giorni o poco più, per non essere più messo in discussione: chiare ragioni e torti, pietà per tutti i nostri fratelli caduti, tutti insieme per ritrovare la Patria comune, senza riaprire le ferite che hanno rischiato di essere mortali anche per essa e non solo per gli uomini. E a me, laico e poco vicino alle cose di Chiesa, tocca riconoscere che tra gli uomini e donne delle istituzioni cittadine, a incarnare meglio questo spirito è un signore gentile e con la tonaca inzuppata d’acqua, monsignor Bottoni: ah, che direbbero i Padri Costituenti, vecchi massoni impenitenti!

 

Franco D’Alfonso



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